Piovono botte sui professori (e qualche volta anche sugli alunni). Ma il problema non si risolve con la nostalgia dei “bei” ceffoni di una volta, perché riguarda un degrado assai più generale. Il tentativo di ridurre gli insegnanti a funzionari dell’apparato tecnologico.
di NANDO CIANCI
Da un po’ di tempo la cronaca ci presenta genitori che aggrediscono docenti o dirigenti scolastici e alunni che insultano e minacciano i docenti, con una escalation che è culminata, recentemente, nel ferimento di una professoressa da parte di un ragazzo che sente la necessità di entrare in aula armato di coltello. Come se, invece che a scuola, si recasse nella Londra notturna di fine Ottocento, che la letteratura ci descrive piena di agguati.
Non mancano, d’altra parte, episodi di segno opposto: maestre che picchiano, maltrattano, umiliano bambini; docenti che riversano mire non professionali su ragazzi e ragazze.
Una scuola, dunque, aggredita in uno dei valori più profondi che dovrebbe insegnare e praticare nella sua quotidianità: la civile convivenza. Aggredita dall’esterno e dall’interno.
La questione può, naturalmente, essere letta da diversi punti di vista.
Il genitore che aggredisce docenti e preside è probabilmente mosso, nel profondo, da una concezione che vede il figlio come una sua personale proprietà, che nessuno può intaccare dettandogli regole, richiamandolo a comportamenti corretti, sanzionandolo quando il comportamento attuato è eticamente grave o praticamente pericoloso per gli altri. In tale ottica, rispetto alla comunità e allo Stato, il figlio è portatore di tutti i diritti e di nessun dovere. Il dovere è, al massimo, una questione interna alla famiglia. Se, dunque, si hanno solo diritti, ogni comportamento è lecito e gli altri non hanno facoltà di intervenire sul figlio in nome di doveri che, per l’appunto, non sono riconosciuti come tali.
È, come si vede, un ulteriore aspetto di una carenza etica che dilaga ancor più al di fuori della scuola: quella dell’idea di bene pubblico. Quella che non ti consente di usare a tuo piacimento i beni della comunità, come il territorio, l’acqua, gli spazi pubblici. Ma questo vale anche nel piccolo, come nel caso del ragazzo che, a scuola, ha scagliato una sedia contro il vetro di una finestra, infrangendolo. Che sedia e vetro stiano a scuola grazie al lavoro della comunità che paga le tasse e che, per tale ragione, essi vadano rispettati è un concetto che non si affaccia a limitare i comportamenti aggressivi: tanto per ricordare, il papà dell’alunno protagonista di questo episodio in una scuola siciliana, avutane notizia, si è precipitato a scuola per difendere il figlio e aggredire il dirigente scolastico.
L’idea dei figli come proprietà privata dei genitori si manifesta anche in forma non violenta. Come nel caso dei genitori-maggiordomo, costantemente impegnati ad evitare che qualunque ostacolo venga posto davanti al figlio e che vede un nemico in chiunque lo faccia. Dimenticando che l’educazione è fatta anche di ostacoli da superare e di sconfitte da imparare a sopportare e trasformare in nuova linfa per il cammino nella vita.
Questa latitanza dell’idea di bene pubblico si coglie, di tanto in tanto, come già detto, anche nel comportamento degli educatori a scuola. Casi limite sono gli episodi di maltrattamenti e insidie verso bambini e ragazzi. Insegnanti che cedono allo stress di un lavoro faticoso e diventano preda di crisi nervose che ne modificano, anche in modo duraturo, natura e comportamenti. Oppure insegnanti inadeguati. Come lo sono anche quelli che non cedono fino ad arrivare alla violenza, ma che si ingrigiscono in un lavoro di routine, senz’anima. Vittime, anche, di chi vorrebbe affidare all’insegnante una semplice funzione tecnica. Vale a dire dell’opera di ministri dell’istruzione, susseguitisi negli ultimi decenni, innamorati delle mode e intrisi di superficiale tecnologismo, che si abbandonano a sparate retoriche sui drammi giovanili e pensano di affrontarli facendo smanettare sempre più i ragazzi sugli aggeggi elettronici. Ministri scientemente dediti a questo fine o, più banalmente, impreparati a governare la complessità di quest’epoca di grandi cambiamenti. E che hanno spesso dimenticato quell’altra facoltà umana che si chiama pensiero. Mentre l’insegnamento è, al contrario, un ruolo che richiede, oltre alla sapienza, eccezionali doti umane. Come quelle mostrate dalla professoressa recentemente accoltellata al volto la quale, invece di invocare punizioni terribili sul suo alunno, si sta chiedendo in cosa la scuola abbia sbagliato. Non ha dimenticato, neanche nel trauma, di essere un’educatrice (anche se, va ricordato, mettere semplicemente una pietra sopra l’accaduto non è educativo). Una docente che probabilmente appartiene a quella parte di insegnanti che sfiorano quotidianamente l’eroismo e restano umani, nonostante tutto.
Il problema ha, dunque, almeno due facce. Quella che riguarda gli insegnanti, ai quali andrebbe restituita dignità sociale anche liberandoli dal compito di scervellarsi in continui adempimenti burocratici, o comunque estranei al lavoro in classe (spesso inutili). E far impiegare il tempo così liberato nello studio e nel confronto delle esperienze, in modo da renderli più adeguati ad affrontare gli enormi problemi che la società ha riversato su bambini e ragazzi. Una tale adeguatezza risolleverebbe di molto il loro prestigio. E, detto di passaggio, sarebbe bene liberare anche i dirigenti scolastici (e il personale amministrativo) di una mole intollerabile di adempimenti (e connesse responsabilità) che spesso sfiorano il demenziale. Il che non è facile, perché dietro il proliferare quotidiano di norme, adempimenti, “innovazioni” vi è una logica precisa: ridurre -come il resto degli uomini- anche gli insegnanti a funzionari dell’apparato tecnologico che governa il mondo, meri strumenti che collaborino con le macchine a formare clienti e non cittadini. Distinzione non peregrina anche sul piano etico: il cliente ha quasi esclusivamente diritti, il cittadino ha diritti e doveri (con il che possiamo anche spiegarci, almeno in parte, la carenza del senso del bene pubblico).
In tale ottica va spiegato anche il fatto che, quando si tratta di far crescere la considerazione che la società ha della scuola e si parla di restituire dignità all’insegnante non si approfondisce il ruolo della scuola nella società (e quale società si ha in mente quando si organizza la scuola), né ci sofferma su come restituire all’insegnate un ruolo sociale di tutto rispetto, come la funzione meriterebbe. No, ci si concentra solo sulle retribuzioni, sul loro innalzamento ed adeguamento. Discorso giusto e necessario, naturalmente, ma quando su di esso viene posto una enfasi totalizzante si fa passare un messaggio molto chiaro: il tuo prestigio sociale dipende essenzialmente da quanto guadagni. Non da cosa fai e come lo fai.
L’altra faccia del problema riguarda gli alunni. Che spesso arrivano a scuola carichi di problemi. Pensare di affrontare i deficit di attenzione dovuti anche all’uso compulsivo di apparecchi elettronici vari, o l’insofferenza allo star fermi nei banchi, o l’aggressività crescente nei confronti di compagni e docenti, o la montagna di certificazioni di handicap che si rovesciano sulla scuola, o i mille altri disagi che si manifestano in varie forme, ricorrendo a qualche scapaccione o, genericamente, alla semplice repressione sarebbe come affrontare le tempeste dell’oceano cavalcando un cavalluccio marino di plastica. Ben altra è la funzione docente, che percorre le vie dell’ascolto, del coinvolgimento, dell’introduzione dei giovani (con gli strumenti che i tempi consentono) alla plurimillenaria elaborazione culturale e civile dell’umanità. Un compito immane, che richiede una grande preparazione e che dovrebbe essere favorito, e non ostacolato, dall’amministrazione scolastica. Un compito che richiede fatica enorme e studio continuo. Dei libri e delle persone. Che può essere svolto solo da chi se la sente, da chi abbia un alto senso civico e sia consapevole che i cambiamenti culturali in corso richiedono una mobilitazione straordinaria di energie. E che, perciò, non può essere assolto attraverso la facile scorciatoia dei “ceffoni”.
A patto, naturalmente, che si insegni agli alunni che non esiste alcun diritto, se non è accompagnato da un corrispondente dovere.
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