Il corpo, fin dall’alba dei tempi, è stato oggetto di attenzioni di segno alterno. Talora ha goduto di particolari riguardi (per esempio, di eccessi curativi, cerimoniali terapeutici, pratiche esorcistiche, conoscenze alchemiche per dilazionare il più a lungo possibile gli oltraggi del tempo), talaltra, invece, di spietate mortificazioni.
Quando il rapporto con il sacro era forte e vincolante, quando la salute del corpo e la salvezza dell’anima si riteneva fossero strettamente allacciate, quando il peccato di gola e quello di lussuria venivano posti sullo stesso piano gli uomini e le donne di Dio, impegnandosi quotidianamente nel governo delle proprie passioni (e soprattutto del nesso cibo/sessualità/erotismo) praticavano la “dietetica della privazione” o, meglio, una quaresima permanente per dirla con Piero Camporesi, uno degli storici più geniali e inventivi su questo tema, affidandosi a regimi alimentari rigidissimi, inflessibili, spietati, auto-punitivi che annichilivano ogni voluttà, garantendo una sopravvivenza tanto stentata quanto attraversata da insonnia e allucinazioni. Detto per inciso: la fame è la più economica e universale delle droghe[1].
Allude, per esempio, all’equazione astinenza dalle mense /rifiuto del sesso, lo stile di vita dei santi eremiti. Il padre del monachesimo S. Antonio, il leggendario anacoreta, sintetizza in modo esemplare questo regime. La sua biografia informa che tra sé e i fantasmi onirici seducenti e peccaminosi che “prendono di mira l’ombelico del ventre” aveva posto il digiuno oltre che la veglia e la preghiera e, in particolare, il rifiuto della carne, allusiva di sensualità. Si era affidato a un regime alimentare a bassissima tensione che annichiliva ogni voluttà ma che, paradossalmente, lo difese dalle ingiurie del tempo: l’odiosa vecchiaia non scalfì il suo corpo, né la sua mente. Dopo vent’anni di privazioni era sempre eguale, lontanissimo dall’aver assunto le sembianze di uno scheletro “nell’al di qua”[2]. A quanto riferisce il suo biografo Atanasio «mangiava una volta al giorno, dopo il tramonto del sole, talora ogni due giorni e talora ogni quattro. Il suo cibo era pane e sale e beveva solo acqua. […] Spesso, quando stava per mangiare con molti eremiti, ricordandosi del suo cibo spirituale, si scusava e andava lontano da loro; pensando che si sarebbe vergognato se l’avessero visto mentre mangiava»[3]. Il motivo è presto detto: vuoi perché la gola e l’incontinenza, come accennato, venivano interpretate quali espressioni di demoniache tentazioni; vuoi perché l’atto del masticare non è gradevole alla vista.
Anche il suo penitente discepolo, Ilarione di Gaza, si astenne rigorosamente dalle seduzioni del gusto, affidando la propria esistenza al succo di erbe, a pochi fichi secchi, a radici crude, talora a una zuppa di farina e verdura tritata e a poche once di scuro pane d’orzo. Fino all’età di sessantatré anni non conobbe la piacevolezza di un frutto fresco, né dei legumi[4]. Unica eccezione a questa intransigente dieta fu l’olio, ritenuto una medicina cui questi dovette ricorrere quando le carenze vitaminiche del suo corpo si facevano vistose.
A proposito dell’olio, uno dei più prestigiosi maestri medioevali, S. Bernardo di Chiaravalle, allertava sull’eccesso di condimento che avrebbe reso i cibi concupiscibili: le tentazioni si presentano infatti col volto bifronte ora della donna ora della tavola. Al riguardo precisava: «Il vino e il fior di farina, le bevande mielate e i bocconi squisiti sono a vantaggio del corpo, non dello spirito; le fritture ingrassano la carne, non già l’anima. […] La fame sola, con un poco di sale serve di condimento a chi vive con ritegno e sobrietà»[5]. In questo intricato sistema segnico, assoluto il divieto di cibarsi di carne perché le sue proteine provocano agitazione, irrequietezza, inquietudine e, in sovrappiù, sogni conturbanti.
Tuttavia, e come accennato, questo regime dietetico pare procurasse la longevità. Per esempio, S. Romualdo, il fondatore dei Camaldolesi, famoso per le sue lunghe astinenze dal cibo morì ultracentenario nel 1027 sebbene il suo corpo fosse spesso vacillante, il suo aspetto scheletrico, la sua mente allucinata dai troppi digiuni. Quando lo solleticava il desiderio di qualche cibo meno austero di quelli di cui si cibava quotidianamente (una leggera farinatella a bere, fatta da lui stesso con un tantino di farina e poche erbe), ne chiedeva la preparazione ma non lo accostava alla bocca bensì al naso, cibandosene attraverso l’olfatto. Quindi lo rimandava in cucina. Anche San Bernardo di Chiaravalle ammoniva i confratelli a fuggire i condimenti perché invariabilmente corruttori e, del pari, nel Seicento, S. Filippo Neri, un altro grande maestro dell’astinenza, affidava il suo sostentamento al solo cibo eucaristico. San Luigi Gonzaga non era da meno: qualche fetta di pane bagnata nell’acqua costituiva il suo cibo quotidiano e se talora deviava da tale precetto, per esempio, mangiando un uovo in un solo pasto (il che peraltro avveniva di rado) si riteneva un ingordo, deprecabile crapulone.
Gli strumenti del digiuno e di diete dure, spietate, rigorosamente vegetariane indispensabili per aspirare alla divina beatitudine si estremizzano nella dimensione femminile, trasformandosi in simboli di diversità e di perfezione spirituale[6]. È soprattutto il monachesimo femminile a seguire tale dettato: per aspirare a un corpo angelico, asessuato, riflesso esteriore del divino era necessario adottare una dietetica celeste disponibile a cibarsi unicamente del corpo e del sangue di Cristo.
Con Caterina di Iacopo di Benincasa si entra in quella dimensione mistica in cui il digiuno, la preghiera, la penitenza, le flagellazioni si trasformano nell’unica via di salvezza per accedere alla primigenia purezza. Di lei, che può definirsi una tra le più famose “sante anoressiche”, si conoscono le abitudini alimentari dalla Legenda maior scritta dal suo confessore e biografo ufficiale Raimondo da Capua. Fin da bambina praticava penitenze, veglie, astensione dal cibo[7]. Dall’età di circa sei anni si nutriva unicamente di pane, vegetali crudi e acqua. A circa vent’anni, non mangiava quasi nulla. Quando si sforzava di mangiare pativa moltissimo, la digestione non avveniva e il cibo veniva rimesso dalla via per la quale era entrato. Pertanto, beveva solo acqua fredda, masticava erbe amare e poi le sputava. L’incapacità del suo stomaco a trattenere il cibo la indusse non senza pena a inghiottire semi di finocchio o di altre piante. Non toccò più pane da quella età e nell’anno della sua morte (il 1380) sopraggiunta all’età di trentatré anni, in aggiunta alle sue pesanti penitenze decise di rinunciare anche all’acqua «meditando sulla circoncisione di Cristo e la preziosità di ogni sua goccia di sangue»[8]. Traeva nutrimento esclusivamente dall’ostia.[9] Per lei la sottile, minuscola, quasi incorporea particola costituiva quel pane celeste, quell’alimento-simbolo dalle proprietà taumaturgiche che bastava a tenerla in vita.
Con Caterina da Siena e le sue compagne (per esempio, la beata Angela da Foligno si nutrì per dodici anni del corpo di Cristo senza gustare altro cibo) si entra nell’area che alcuni storici e antropologi definiscono “misticismo ribelle femminile” in cui il digiuno diventa la cifra di un percorso che certifica la volontà di esprimere una propria, compatta, non negoziabile identità di ascesa mistica: il rifiuto del “cibo morto”, destinato all’effimero prolungamento nel tempo della carne umana e l’appagamento prodotto dal soavissimo “cibo vivo”, destinato all’eternità e rappresentato dal corpo di Cristo[10]. Ovvero, e detto in altro modo, la ricerca della spiritualità comportò il rifiuto di un corpo asservito e spersonalizzato che rinviava a “vite di destino” e di subalternità sociale. Di qui il nesso misticismo/ribellismo cui si accennava.
Oggi l’Occidente, superfluo il precisarlo, non esibisce più diete da eroi della fede, aspiranti alla beatitudine, fughe dalla sessualità. In un’epoca sostanzialmente disincantata, secolarizzata, sessualizzata, il cibo si è, per così dire, demotivato e devitalizzato: ha perso l’intricato labirinto segnico e primordiale cui qui si è accennato, aprendosi con indifferenza a cacofonie dietetiche e a sempre più diffuse espressioni gastro-anomiche.
[1] P. Camporesi, Le officine dei sensi, Garzanti, Milano, 1991, pp.78 e 80.
[2] Ivi, p.171.
[3] Ivi, p. 80 (Atanasio, Vita di Antonio, Mondadori, Milano, 1974).
[4] Ivi, p.81 (Hieronymi, Vita Hilarionis, Mondadori, Milano, 1975).
[5] Ivi, p.85 (S.Bernardo di Chiaravalle, Lettere, SEI, Torino, 1944).
[6] Ida Li Vigni, Quel perverso piacere del digiuno. Contrappuntoblog.org.
[7] C. Leonardi, “Caterina, la mistica” in Aa.Vv., Medioevo al femminile, Laterza,1996, p. 172.
[8] Idem, p.60.
[9] R.M. Bell, La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo a oggi, Laterza, 1987, p. 34.
[10] P. Camporesi, Le officine dei sensi, op. cit, p.185.
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