Si va affermando nella nostra società una sorta di "neolingua", che favorisce un pensiero povero e ristretto. Con la complicità della scuola.
di NANDO CIANCI
Nella Londra immaginata da George Orwell nel suo celebre 1984 si stagliavano quattro edifici a piramide in cemento candido, a gradini, alti cento metri. Uno di essi era il Ministero della Verità e recava impressi sulla facciata tre slogan: «La guerra è pace», «La libertà è schiavitù», «L'ignoranza è forza». Il Ministero lavorava, tra l'altro, a rendere credibili e popolari questi paradossi coniati dal potere. Un attrezzato reparto era addetto ad una funzione solo apparentemente singolare: correggere i numeri arretrati del Times, depurandoli di notizie e dati che potessero nuocere all'interesse momentaneo del regime, ristamparne di nuovi e collocarli nella collezione al posto dei vecchi, destinati alla distruzione. Il passato, così, era continuamente riscritto, in modo che mai da esso potesse emergere nulla che non testimoniasse la giustezza e la bontà del potere costituito: «Giorno per giorno, minuto per minuto, si può dire, il passato veniva messo al corrente»[1], spiega Orwell.
Questa riscrittura del passato aveva anche la conseguenza di rendere ballerina, disorientata e vacua la memoria, in modo che le personalità dei cittadini, ridotti a sudditi, risultassero inconsistenti e facilmente manipolabili dal potere.
Ma il potere non si limitava ad agire sul passato, per condizionare il presente. Alla distruzione di una solida memoria collettiva si accompagnava uno strumento che concorreva, nel presente stesso, a ridurre ai minimi termini la capacità di pensiero. Tale strumento era rappresentato dalla neolingua.
In cosa essa consistesse ci viene spiegato da Orwell stesso nell’appendice al suo romanzo: essa «era intesa non a estendere, ma a diminuire le possibilità del pensiero; si veniva incontro a questo fine, appunto, indirettamente, col ridurre al minimo la scelta delle parole».
La “profezia” di Orwell sembra trovare oggi una attuazione, subdola e non imposta con la forza, anche in regimi che si richiamano, nelle loro costituzioni, ai valori della democrazia. A valori, cioè, opposti a quelli che caratterizzavano il regime dittatoriale di 1984.
Anche da noi, a ben guardare, è in atto un processo che concorre all’impoverimento della lingua e, conseguentemente, del pensiero. Con la differenza, rispetto a quel regime immaginario (ma non tanto) che il processo riduttivo sembra più una resa a correnti economiche e culturali globalizzanti che il risultato di un’operazione studiata a tavolino.
In tale scenario si inserisce la tendenza attuale della scuola (non solo italiana) a ridurre le attività di studio che richiedono riflessione, rielaborazione senso critico. Per privilegiare una desolante rincorsa alle mode tecnologiche (non alla tecnologia, che indubbiamente ha una sua utilità nel lavoro didattico, ma alle mode, al futile, all’apparente, all’uso del mezzo tecnologico fine a se stesso).
Per questa via si impoveriscono il linguaggio, la capacità di vedere le cose nel loro insieme, la possibilità di avere una personale visione della vita e di articolarla nei suoi molteplici aspetti. E si favorisce l’uso di un linguaggio striminzito, che fatalmente andrà ad associarsi ad un pensiero povero e ristretto all’immediato, a ciò di cui ci si occupa in questo momento, al restringimento del campo di azione e di pensiero a proporzioni minuscole. Non sviluppando un’idea della vita e un pensiero critico, si perverrà a ciò che Orwell diceva della neolingua: essa fa del pensiero unico la sola concezione del mondo consentita e fa sì che un altro modo di vedere il mondo divenga «letteralmente impensabile, per quanto almeno il pensiero dipende dalle parole con cui è suscettibile di essere espresso»[2]. La sconsolante povertà del lessico prevalentemente usato sui social (ma non solo in essi) sembra confermare questo andamento, che la scuola dovrebbe contrastare.
In questo ambito, la «necessità di un fraseggiare rapido e veloce»[3] non corrisponde a quella di esprimersi con chiarezza, ma a semplificare in modo perentorio la complessità del reale, che non deve essere penetrato, poiché nell’analisi della complessità si sviluppano il pensiero critico e l’intelligenza esploratrice.
Il giorno in cui la vecchia lingua «fosse stata sostituita una volta per tutte dalla Neolingua, si sarebbe infranto l’ultimo legame con il passato»[4]. La lingua, infatti, rappresenta un legame con le generazioni che ci hanno preceduto e con la storia della nostra civiltà. Ad allentare tale legame concorre da noi, all’interno della tendenza generale già accennata, l’introduzione ingiustificata di molti dei cosiddetti anglicismi, vale a dire di termini ed espressioni caratteristici di un altro contesto linguistico. Alcuni di questi termini sono accettati da lungo tempo nella nostra lingua, senza averne provocato -al pari di parole derivanti dal francese o da altre lingue- uno snaturamento. Altri termini appaiono, almeno momentaneamente, necessari, in quanto corrispondenti a concetti nuovi, maturati in ambiti specifici e in altre cornici linguistiche, che non hanno ancora trovato una soddisfacente traduzione in italiano e che forse sono, in diversi casi, intraducibili. Confermano, in sostanza, quel che già sapevamo: la lingua è un insieme mobile e cangiante, che si arricchisce -o impoverisce- col mutare dei tempi. Ma la maggior parte dei termini che si vanno introducendo sono del tutto ingiustificati, in quanto esistono corrispondenti parole italiane chiare ed appropriate, e derivano da altri fattori, quali il seguire la moda, apparire come “esperti” nel proprio campo, iscriversi alla élite tecnocratica adottandone il gergo, abbandonarsi all’esibizionismo nel campo mediatico o dello spettacolo, atteggiarsi a politici in sintonia con i nostri tempi, dare alla scuola una patina di “modernità”. Ed altri ancora[5]. Dando così origine ad una «appiccicosa poltiglia linguistica in cui rimangono invischiati tanti parlanti e scriventi soprattutto giovani»[6]. Un conto, insomma, è assistere alla normale evoluzione che ogni lingua ha sempre avuto, anche mercé il contatto e la commistione con altre lingue, altro conto è investirla con una valanga di anglicismi (o presunti tali) che scacciano intere famiglie di parole e tolgono all’italiano la sua caratteristica più bella: la ricchezza delle parole e delle sfumature. Contribuendo, così, alla formazione di quella neolingua che finisce con l’impoverire il pensiero individuale e la vita democratica delle comunità.
[1] George Orwell, 1984, CDE,Milano, 1983, pp. 102 e 141; nella stessa edizione il romanzo è preceduto da un altro lavoro orwelliano, La fattoria degli animali.
[2] Ibidem, pp. 437-438.
[3] Ibidem, p. 441.
[4] Ibidem, p. 448.
[5] Per una analisi più approfondita del fenomeno di vedano:1) Sergio Lubello, L’itangliano è ancora lontano? Qualche riflessione sull’influsso dell’inglese, in Lezioni d’italiano. Riflessioni sulla lingua del nuovo millennio, il Mulino, Bologna, 2014, pp. 63-80; 2) Vincenzo Ostuni, Sentiamoci. Disgusto linguistico e potere, in Filippo La Porta (a cura di) Di cosa stiamo parlando? Le frasi e i tic della vita quotidiana, Enrico Damiani Editore, Salò, 2017, pp. 47-49.
[6] Sergio Lubello, op. cit.