Ci ritrovavamo, almeno una volta l'anno, in un locale della riviera di Casalbordino, noi “ragazzacci” del Comitato "Generazione Luna", perché tutti nativi del '69, rimpatriando dai quattro angoli d'Italia, e anche oltre, dove ci eravamo sparpagliati per realizzare i nostri sogni: c'era Nura, o come dicevan tutti, Fatua, nel doppio senso arabo di sentenza inappellabile, per i suoi pareri perentori, ed italiano, di presenza a sprazzi, una bella morona dal viso di luna piena e il sorriso sottile, con una cascata di riccioli, che, dopo il matrimonio esotico, insegnava Lingua italiana all'Università di Marrakech, coniugando così la passione per le materie umanistiche con quella per deserti e paesi orientali; e c’era Anna, viso e sguardo che trasudavano ironia e simpatia da tutti i pori, una solare artista impertinente, come del resto deve essere ogni artista, che, dopo essersi trasferita a Milano per frequentare una scuola per disegnatori di strisce, con i propri fantasiosi personaggi coloratissimi e tridimensionali, aveva fatto impallidire il successo delle Winx. C’era pure quello sciupafemmine di Max, occhi neri e vivaci, barbetta e pizzetto ben curati, ricco proprietario, simpaticamente cafonal, di un grande centro commerciale della regione, che faceva impallidire Casanova e Don Giovanni messi insieme e che ormai aveva messo la testa a posto, tranne la lingua; e naturalmente c'ero anch’io, Nella, una simpatica quattrocchi, secchiona di buon senso, che, invece, ero riuscita a diventare una baronessina universitaria, succedendo nella cattedra di Letteratura italiana al mio maestro nell'Università regionale, sbaragliando nel concorso, grazie alle pubblicazioni, anche poetiche, parenti e amanti.
Quella volta, dopo che il biondo e magico Trebbiano d'Abruzzo ebbe abbondantemente innaffiato e inebriato con il suo leggero, fruttato profumo, scapece, brodetti di pesce alla vastese, chitarrine all'astice e quant'altro (compresi i freni inibitori), arrivò il buffet di dolci, in cui, tra un dolce al cucchiaio al cioccolato (i miei preferiti) e un pasticcino arabo, sfogliatelle di Villalfonsina e bocconotti locali, troneggiava un vassoio di tarallucci, il vero prodotto esclusivo del luogo, una vera specialità.
«Finalmente il nostro taralluccio. Mi mancava proprio! - esclamò Nura, avvicinandosi e prendendone uno - possibile che nessuno gli abbia mai dedicato una poesia? Non ha proprio niente da invidiare al parrozzo o alla sfogliatella di D'Annunzio - ve la ricordate «A Vucchella», no? - o agli arancini di Camilleri! Intanto vi propongo una dedica: “Al taralluccio di Casalbordino”! - declamò entusiasta.
«Ehi, guardate la forma - soggiunse maliziosamente Anna, prendendone uno anche lei e rigirandoselo, come se disegnasse uno dei suoi personaggi al computer - sembra proprio... quella cosa che piace tanto a Max, ah, ah, ah!»
«Ma certo! - intervenni, visto che mi piaceva cominciare le mie poesie con una citazione di versi celebri, come omaggio ad un patrimonio culturale di cui era impossibile fare a meno e non certo, come diceva qualcuno con intenzioni parodistiche o peggio ancora... - Brava! Mi hai fatto venire in mente due bei versi, anzi tre:
Forse perché della vital fattrice
femminina tu sei l'immagine
a me caro vieni, o taralluccio».
«Stavate parlando di me? - disse Max, ancora con la bocca occupata, finendo di sgranocchiare l'ennesimo taralluccio».
«Tu c'entri sempre quando si parla di donne - ridacchiò Anna, sollevando lo sguardo dal taralluccio a lungo rimirato e indicandoglielo con un gesto e un malizioso occhiolino - e specialmente con ciò che di loro ricorda questo... e che non sono gli occhi!».
«Ma davvero!!! - esclamò Max sgranando i suoi, come un bambinone a cui era stata fatta una bella sorpresa, poi disse maliziosamente: «Non ci avevo mai pensato... allora... piatto ricco, mi ci ficco!!!». E prese voluttuosamente un altro taralluccio dal vassoio.
«Ecco allora che si può ben dire...
quando osservo virili canini
violare il bianco tuo manto
dal goloso sapore zuccherino»,
soggiunse Nura a commento della situazione.
«Brava... e io aggiungo... come lamellare velo nuziale - ribattei subito, alludendo velatamente al suo matrimonio da “Mille e una notte”, anche per placare la mia autostima un po' ferita dal suo affondo poetico, poi, come in un fulmineo contropiede calcistico, presi un altro taralluccio, lo girai verso di lei e declamai questi versi fingendo di parlargli, quasi fosse il teschio di Amleto:
«Concedi che quelle candide gemme
dilanino il guscio di avorio
tuffandosi nel tuo scuro magma».
«Magma?... ah, la lava... - disse distrattamente Anna - rossa come la tua faccia - sussurrò poi sottovoce a Nura, accorgendosi dell'imbarazzo dell'amica, aggiungendo subito dopo, con convinzione, a voce più alta - sì, la lava densa come la marmellata, ma dal colore più scuro, direi... come l'ebano, ... ma il succo dell'uva è rosso, rosso sangue...».
«Complimenti Anna, un bel verso pittorico! – soggiunsi subito io - e se alla marmellata aggiungiamo il croccante della frutta secca, anche il ripieno virtuale è pronto, in questo modo:
d'ebano, rosso sangue di acini
d'uva dolce, con croccanti gherigli»
- declamando così altri due versi che condensavano quanto detto da Anna.
«Ehi, ragazzi, ma chi l'avrebbe detto che sto taralluccio ci avesse la forma de la frogne de li fòmene - si mise a gridare Max da un divanetto in fondo alla sala, ormai completamente avvinazzato, anche da un fatato spumante locale, poi aggiunse con tono sprezzante - e se non stai attento, ti ritrovi in mezzo ai guai».
«Ma cosa stai dicendo, ma quali guai! - lo rimproverai con comprensione - ma se hai una splendida moglie e due bei figli! Non dire caz...sanate e vedi piuttosto di far funzionare quel karaoke, così... canti, che ti passa!» - ma, mentre quello andava un po' barcollante verso il banco, pensai tra me: «Però l'idea del taralluccio come immagine di fertilità e concepimento non è davvero male, ci rifletterò su...». E raggiunsi gli altri al karaoke, dove la festa sembrò avere la sua allegra conclusione.
Qualche tempo dopo però, feci recapitare ai partecipanti un cartoncino simile a un biglietto d'auguri natalizio, corredato da una foto con un taralluccio su un bel piattino e contenente una poesia:
Ode al taralluccio
Al taralluccio di Casalbordino
Forse perché della vital fattrice
femminina tu sei l’immagine,
a me caro vieni, o taralluccio,
quando osservo virili canini
violare il bianco tuo manto
dal goloso sapore zuccherino
come lamellare velo nuziale.
Concedi che quelle candide gemme
dilanino il guscio di avorio
tuffandosi nel tuo scuro magma
d'ebano, rosso sangue di acini
d'uva dolce, con croccanti gherigli,
perché si celebra in te l'antico
enigma per il quale, dopo novelune nuove, tanti tuoi futuri
golosi sgraneranno gli occhi su
quelle tonde tue forme, che sono
bandiera del femminil privilegio.
Era l’«Ode al taralluccio», i cui versi, frutto della creatività collettiva di quella rimpatriata goliardica, avevo trascritto a memoria e completato, prima che si disperdessero, come il tenue, floreale profumo del Trebbiano d'Abruzzo.
Questo racconto, sebbene sia stato scritto e rimaneggiato dopo di alcuni altri, costituisce il numero uno della prima serie dei “Racconti casalesi”, perché introduce a personaggi e vicende del mio piccolo mondo, che però si dimostra essere, come la provincia in generale, specchio e serbatoio di tutte le storie letterarie (N. dell’A.)