Continua l’esodo dei giovani italiani verso l’estero. Qualcuno li definisce “in fuga”. Ma a fuggire, in realtà, sono gli adulti. Dalle proprie responsabilità.
di NANDO CIANCI
Quasi 50.000 giovani hanno lasciato l’Italia nel 2016 per cercare lavoro e realizzazione all’estero, andando ad infoltire il già impressionante numero di italiani, 5 milioni, che vivono fuori dai confini nazionali.
Sono partiti accompagnati dagli stantii titoli dei giornali e del web, che li definiscono giovani “in fuga”. Una definizione che, a ben guardare, disturba un po’. Perché nel concetto di fuga, a meno che non si tratti di imprese sportive, è spesso implicito un senso di condanna, come di chi abbandona il presidio di persone, comunità e beni comuni.
Naturalmente non sempre è così: a volte la fuga è associata all’idea di costrizione: le storiche fughe dalle invasioni barbariche, ad esempio, e quelle attuali dalle guerre e dalla fame.
A volte il concetto di fuga è stato nobilitato letterariamente quale modo per scoprire nuovi mondi, come nel caso di Henri Laborit: «Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa (…) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca che si chiama Desiderio»[1].
Ma torniamo ai nostri giovani che “fuggono” all’estero. Nell’uso della parola “fuga” per definire questo esodo c’è la cattiva coscienza di politici, giornalisti, intellettuali di un insieme di generazioni adulte, tra cui la mia, che ha lasciato andare l’Italia alla deriva, che si è occupata quasi solo di emergenze (più con fiumi di retorica che con azioni concrete) e di questioni “politiche” autoreferenziali di conservazione del potere di singoli e di gruppi. Che non ha fatto prevenzione (e, perciò, non ha favorito la ricerca, che ne è un fondamento essenziale). Che ha lasciato fasce di giovani deculturalizzati, in intere zone del Paese, nelle mani delle mafie, costruendo non-luoghi dove ogni senso di comunità -tranne quello malavitoso- viene spento. Che non ha guardato alla scuola, alla sanità, alle possibilità che l’allungamento medio della vita può dare alle comunità come risorse, ma solo come capitoli di bilancio da assottigliare ad ogni costo (spesso battezzando questa operazione con la parola “modernizzazione”). Che sta abbandonando le ultimissime generazioni alla beota deriva digitale (perché educare è faticoso). Che non ha saputo né prevedere né gestire i problemi dell’immigrazione e dell’integrazione, campo nel quale ci sarebbero spazio per attività e lavoro anche per i nostri giovani. Che ha dato vita ad una classe di imprenditori in maggioranza abbarbicati al gretto tornaconto immediato, incurante dei doveri che avrebbero verso i territori che li ospitano, lamentosi e questuanti verso lo Stato, sempre pronti a spostare la produzione dove possono pagare di meno i dipendenti, lasciando in mezzo ad una strada persone esperte e qualificate. E non investendo nella ricerca, che non è prevista nel loro meschino orizzonte. Che sta sperperando un patrimonio artistico e paesaggistico senza eguali al mondo. Che ha guardato alle fragilità del territorio della penisola come a fenomeni su cui rovesciare retorica inconcludente (per la parte politica) e realizzare profitti sulle disgrazie (per la parte imprenditoriale e per frange malavitose).
E sono questi che definiscono i giovani come persone “in fuga”. Verrebbe da dire che se sono in fuga, i giovani, lo sono come si fuggiva di fronte ad Attila.
Certo, l’Italia non è solo questo. È una terra ancora ricca di tesori artistici e naturali. E straricca di belle persone, che mandano avanti la baracca nonostante tutto.
Ricchezze amate e difese anche dai giovani che vanno per il mondo per cercare la possibilità di realizzarsi. Accanto ad essi, ci sono poi tanti giovani che, per scelta o necessità, restano. Alcuni (una minoranza, per ora) si riappropriano di terre, paesi e mestieri abbandonati. Si sono assunti, di fatto, il compito di ricordare alle generazioni precedenti, frastornate dal rumore che accompagna la corsa alla futilità, che esiste ancora una vita nei luoghi, anche quelli abbandonati, che hanno risorse immense che le vecchie generazioni spesso non sono più in gradi di guardare.
Tanto i giovani che partono, quanto quelli che restano a rianimare attività e luoghi spenti, sono in realtà giovani che resistono con intelligenza allo sfascio. È la società adulta, in realtà, che fugge di fronte alle proprie responsabilità.
[1] In Elogio della fuga, Mondadori, Milano, 2007, p. 7.
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