Il caso del Comune di Como imbarazzato dalla presenza dei senzatetto che attentano al decoro urbano. Un problema sociale affrontato con lo spirito di un Natale rovesciato.
di NANDO CIANCI
Incuranti dell’ammonimento evangelico[1], la piccolissima parte di umanità che detiene la stragrande maggioranza delle ricchezze del mondo continua sagacemente ad operare perché il cammello della loro opulenza diventi sempre più grande, mentre la cruna dell’ago in cui dovrebbe passare diventa sempre più piccola. Alla restante parte dell’umanità tocca stare, come Lazzaro, ad attendere le briciole che cadono dalla tavola del ricco Epulone[2]. Per una frazione di essa non c’è posto neanche per spartirsi le briciole e viene gettata in balia del mondo.
In un momento dell’anno che pur richiama la speranza per gli umili e per i derelitti, i mendicanti conoscono a volte, paradossalmente, il declino della misericordia umana.
Intendiamoci: il problema dell’accattonaggio ha molte sfaccettature e non va affogato nella retorica natalizia. Ho personale esperienza di una città il cui centro storico è presidiato da giovani più che decentemente vestiti, dall’aspetto a volte pingue e a volte aitante. Manifestamente dotati, in molti casi, di telefonini non vetusti. Ognuno occupa stabilmente un posto dove esercita l'accattonaggio, dando nell’insieme l’impressione non della povertà, ma di un presidio del territorio che potrebbe rimandare ad una qualche organizzazione di una certa forza. Appartengono, per inciso, in maggioranza ad una sola etnia, molto invisa alle altre, che le rimproverano di causare il malcontento dei cittadini verso tutti gli immigrati. E rappresentano un danno anche per gli indigenti veri, che non hanno accesso ai territori “controllati” (quelli dove circola più denaro) e, laddove possono stanziare, vengono confusi dalla gente nel fastidio che generalmente quella sorta di professionisti organizzati dell’accattonaggio suscita nei passanti. Questo tipo di accattonaggio andrebbe investigato per scoprire se si tratti davvero di organizzazione sconfinante nel racket e, nel caso, affrontato con energia dalle autorità. Che, nel caso in questione, dormono.
Non dormono, invece, le autorità municipali di Como, dove, a giudicare da quel che riferiscono le cronache, si tratta di altro: di persone cadute nell’indigenza al punto di cercare riparo dal gelo sotto i portici di una chiesa. E che gruppi di volontari cercano di ristorare, nella crudezza delle mattine invernali, con cibo e bevande calde. Qui le autorità sono inflessibili: via dal centro senzatetto e volontari con i loro bricchi di bevande calde, poiché è in ballo il “decoro” della città. Decoro, in una delle sue accezioni, significa dignità, vale a dire «l'intima, indimostrabile nobiltà dell'uomo, l'intima, indimostrabile nobiltà di ogni essere (animale, pianta, roccia), pilastro postulato su cui si fonda l'intera costruzione del formidabile castello dei diritti civili, della vita civile, della cultura civile - della civiltà»[3]. Che va riconosciuta a tutte le persone, indipendentemente dalla loro condizione sociale, come dice l’art. 3 della nostra Costituzione. Il quale articolo prescriverebbe anche alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (rimuovere gli ostacoli, non i senzatetto) Quindi decoro sarebbe non che le persone ridotte all’estrema povertà sparissero dalla vista dei turisti e dei praticanti dello shopping. Ma che fossero aiutate ad uscire dalla loro triste condizione, iniziando col dare a tutti un tetto ed un sostentamento sicuri. Che sparissero, per così dire, dalla realtà, non solo dalla vista.
Tralasciamo qui altri aspetti edificanti dell’operato delle autorità comasche, come quello del linguaggio burocratico dell’ordinanza anti-accattonaggio con il quale si tenta di imbrigliare un problema sociale nella gabbia di un gelido formalismo. O quello, surreale, di minacciare di multe salate persone che non hanno neanche di che comprarsi un cappuccino (il genio improvvisatore di Totò ne avrebbe tratto scenette esilaranti). E limitiamoci ad una osservazione relativa al clima di questo periodo dell’anno. Il Natale, si sa, evoca sentimenti – più o meno sinceri, più o meno retorici – di umana concordia e di apertura agli altri, specie ai più sfortunati. La stessa scelta di nascere in una stalla ha un forte valore simbolico relativo al mondo, quello dei poveri, al quale la divinità in primo luogo si rivolge e con il quale con tutta evidenza solidarizza. Scelta confermata ampiamente, del resto, nella vita di Gesù narrata dai Vangeli. Nei quali troviamo anche un momento della predicazione che sarebbe assai utile alla riflessione del municipio comasco, siano i suoi reggitori credenti o no: «Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati» dice in sostanza Gesù ai discepoli sul monte degli Ulivi[4], istituendo due delle sette opere di misericordia corporale e, nel contempo, prefigurando la virtù civile della solidarietà.
Si può dar da mangiare e da bere in tanti modi. Come fanno i volontari di Como, ad esempio. Meglio ancora affrontando su serio quel che non è un problema di decoro, ma un problema sociale. Che dovrebbe stare a cuore a tutti, a cominciare dai reggitori della cosa pubblica. Sforzandosi di vedere le cose dalla parte dei più deboli, e non solo dalla parte del decoro urbano (che pur è importante, se inteso come manifestazione di senso civico di una comunità che si prende cura dei suoi luoghi). E per tutto l’anno, non solo a Natale.
[1] «È più facile ad un cammello passare per la cruna di un ago, che ad un ricco entrare nel regno di Dio» (Marco, 10, 25). Anche in Matteo (20, 24) e in Luca (18,25).
[2] Luca (16, 19-31)
[4] Matteo, 25, 35.