L’introduzione massiccia di termini inglesi nella lingua italiana corrisponde sempre ad una necessità storica o non è, anche, una sorta di “bullismo linguistico” (volto alla persecuzione del cittadino) e di provinciale sudditanza alle mode?
di NANDO CIANCI
L’ultima trovata linguistica è al limite del grottesco. E, francamente, anche un po’ irritante. Il Senato approva un disegno di legge che mira a tutelare i dipendenti pubblici o privati che segnalano reati o irregolarità sul proprio posto di lavoro. Al neonato bisogna trovare un nome più semplice di quello, come al solito prolisso, scritto nella sua intestazione («Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato»). E, prontamente, la legge viene assalita dalle orde del provincialismo politico e mediatico. Che, per definirla, vanno a pescare dall’anglo-americano l’espressione whistleblowing, già in uso da anni tra gli “addetti ai lavori” nel dibattito sull’argomento. Una definizione ideale per farla comprendere ai pubblici e privati dipendenti, nonché al cittadino contribuente (quello non contribuente se ne infischia del lessico). Chi, non conoscendo né l’inglese né la sua versione americana, azzarda una ricerca su internet, scopre che whistleblowing significa, grosso modo, soffiatore di fischietto. Siamo al limite di quello che definirei una sorta di bullismo linguistico, volto alla persecuzione del cittadino che già deve fare mille sforzi per raccapezzarsi nel ginepraio della legislazione italiana.
Ma, al di là di queste reazioni che può suscitare “a pelle”, la presenza sempre più massiccia e quotidiana di espressioni anglo-americane nel nostro parlare quotidiano si presta a riflessioni più ampie.
Non va dimenticato, preliminarmente, che la lingua non è una costruzione culturale imbalsamata ed immobile. È, al contrario, nella sua natura di cosa viva e immersa nella comunicazione umana, il cambiare in continuazione. Già confrontando un filmato televisivo o un articolo di giornale di quarant’anni fa con uno di oggi si notano cambiamenti assai notevoli. Nel corso dei decenni, per non parlare dei secoli, neologismi nascono, parole a lungo in auge cadono in disuso. E si immettono, nella parlata scritta e orale, termini presi pari pari da lingue straniere. Da lungo tempo usiamo, quasi senza più accorgerci che sono presi dalla lingua francese, termini come garage, dessert, brioche, pedicure, chic, cliché e decine di altri. E questo vale anche per diverse altre lingue e, segnatamente, per quella inglese, da molto tempo presente da noi con parole ed espressioni varie (che so? leader, killer, gangster, hotel…). Solo che, negli ultimi tempi, la presenza di parole inglesi sembra aumentare in misura da far temere l’invasione e la colonizzazione dell’italiano. Alcuni linguisti prefigurano, a tal proposito l’avvento di una lingua ibrida, l’itangliano o italiese.
Va detto che il fenomeno, di per sé, non sembrerebbe quantitativamente così invadente: se si confronta il numero delle parole inglesi usate correntemente nel mondo degli affari, in quello della ricerca tecnologica, nei media e (assai meno) nella parlata corrente, con lo sterminato patrimonio di parole di cui dispone la lingua italiana, vediamo che quel numero è microscopico. Ma sarebbe un paragone incongruo, perché questo sterminato patrimonio viene sempre meno usato. In altri termini: è sempre più povero il bagaglio lessicale usato in tutti i settori sopra indicati e nel parlare comune. E, confrontando, il numero sempre più limitato di parole italiane conosciute ed usate (e a tal proposito molto ci sarebbe da dire sull’allegra distruzione della cultura classica che la politica scolastica cerca da tempo di attuare) con quello delle novità “inglesi” continuamente introdotte, la percentuale si alza considerevolmente.
Ci possono essere, naturalmente, termini tecnici che, per il contesto in cui nascono, sono forse poco traducibili e che è più comodo adottare direttamente dall’inglese. Così come si può ben comprendere la diffusione di espressioni più comode ed “economiche” («Ti mando una e-mail» è più semplice che dire «Ti mando una lettera per posta elettronica»).
Ci sono, insomma, immissioni che appartengono alla normale interazione tra le diverse lingue, che si arricchiscono reciprocamente.
Ma, come appare anche nell’esempio fatto all’inizio di questo articolo, vi è anche «il dilagare di un uso esibizionistico di inutili parole inglesi, anche in avvisi pubblici e scritture private»1. Un uso, per così dire, ingiustificato.
Perché, ad esempio, dire coffee break quando si può dire “pausa caffè”; o fashion invece di “moda”, o workshop al posto di “laboratorio”? E via esemplificando.
Ogni lingua ha una sua logica e procede per strade che si incontrano fecondamente con le altre. E questa è cosa che arricchisce la cultura umana. Ma quando per spiegare una legge al cittadino la si indica come whistleblowing, o quando davanti alla stazione ferroviaria di Padova (che non ha certo un flusso di stranieri paragonabile a quello di un aeroporto internazionale) si scrive sull’asfalto di una corsia per soste brevi Only park kiss + park2, è difficile ricondurre queste trovate nell’alveo dei progressi dell’intelligenza umana.