Per quanto possiamo, in certe circostanze, sentircene infastiditi, forme rituali accompagnano da sempre la politica. Spesso sono servite a cementare intorno al “capo” speranze, entusiasmi, culti della personalità, anche a prescindere dalle strade che il capo tracciava. Persino quando conducevano a guerre e carneficine.
Altre volte hanno instillato nei singoli una sorta di forza interiore nel sentirsi parte di una moltitudine di persone accomunate da ideali, aspirazioni, percorsi di lotta. Antiche cerimonie tribali, gli ingressi trionfali in città dei generali romani vittoriosi, le adunate "oceaniche" di piazza Venezia, le feste di partito che un tempo prosperavano in ogni contrada d’Italia esprimevano passioni, idee, interessi materiali e culturali profondamente diversi e spesso in totale antitesi tra loro.
Ma, per quanto di segno anche opposto, ricorrevano tutti a simbolismi e rituali accomunanti. Hanno, spesso, forgiato guerrieri e “legittimato” oppressori armati di moschetto o di seduzione consumistica. Nei casi orientati da ispirazioni democratiche sono stati, invece, anche palestra di dibattito, confronto di idee, stimoli alla partecipazione consapevole ai destini della collettività. Costruzione di un’idea di cittadinanza che non è mai riuscita, ammesso che sia storicamente possibile, a fare della politica un’arte praticata da tutti e del governare una dimensione veramente comunitaria. Ma ha consentito di uscire dalla condizione di sudditi e di avvicinarsi a quella di cittadini. Di riconoscere i riti legati all’esaltazione della guerra e del razzismo, al bieco dispiegarsi di sentimenti oscuri e di interessi e privilegi chiari. Ha accompagnato, stando all’Italia, il raggiungimento di traguardi, come la Costituzione, capaci di affratellare bandiere, simboli e rituali di appartenenza diversi tra loro. Per crearne altri e più unificanti, per quanto non disperdendo né umiliando quelli più di parte che erano comunque diretti a superare barbarie, stermini, ingiustizie, oppressione di popoli e di persone. Dietro di essi si è magari rifugiato e nascosto anche qualche farabutto. Ma quei simboli e i valori che essi richiamavano potevano contare su milioni di cittadini pronti ad impugnare qualche bandiera per sperare, lottare, far diminuire il tasso di ingiustizia sempre così diffuso nelle società umane.
Quella della nascita di una nuova cittadinanza, prefigurata dalla Costituzione, non è stata una stagione che ha tenuto al riparo da conflitti, tensioni, lacerazioni anche. Ma è stato a lungo possibile individuare, dietro a tutto ciò, un minimo di confronto di idee, di visioni della società, di elaborazione di prospettive, di progetti e speranze per l’avvenire.
In questi giorni di passioni tristi, quel mondo conflittuale ma vivo e reclamante partecipazione, vita civile e fervore intellettuale sembrerebbe scomparso. La rappresentazione della politica appare divisa in tre categorie. Sul palco mestieranti della politica, di livello per lo più scadente, che scambiano il proprio ombelico per il centro del mondo e si comportano come se, per diventare statisti, bastasse lanciare hashtag ad effetto. Sul parterre sudditi ridotti a tifare ora per un “leader” ora per l’altro, a fischiare ora l’altro ora l’uno, come nella Corrida televisiva. Più lontano l’esercito di chi si abbandona allo scontento e non pensa ci siano più strade praticabili per migliorare l’esistenza. C’è poi una categoria a parte: quella degli intellettuali che, smarrita la vocazione a introdurre nella società il pensiero critico, si trastullano nei salotti televisivi, contenti della propria irrilevanza. È il risultato del combinato disposto della sharing economy (l’ economia condivisa), che ha mascherato con una espressione seducente il forsennato intensificarsi di ingiustizie e povertà, e dell’illusione tecnologica, che spaccia per democrazia quattro parolacce che ognuno può buttare sui social, alle quali fanno da contrappunto post banali e scontati, o ad effetto accecante, lanciati dai politici di mestiere. Ed è anche la conseguenza della rinuncia di chi ha potuto usufruire di piccole o grandi fette della cultura plurimillenaria elaborata dall’uomo e delle esperienze di vita accumulate ed ha rinunciato a trasmetterle alle nuove generazioni e a sottoporle al loro vaglio critico.
Alle illusioni che depredano l’umanità e il pianeta della speranza di futuro, si può opporre solo un lavoro da cui nessuno dovrebbe sentirsi escluso, né venire escluso a forza da altri: la costruzione (o ricostruzione) di comunità pensanti, operanti e solidali. Tenendo a mente che le comunità si costruiscono custodendo la memoria e, con la forza che da essa deriva, aprendosi al nuovo. Quando si perde la prima, un popolo viene accecato. Quando non si pratica l'apertura agli altri non si formano comunità, ma solo gruppi rancorosi, pronti a tutto per difendere certi “beni”, per lo più materiali ed illusori, al prezzo di perderne altri che danno sapore e senso alla vita.
È un compito che riguarda tutti. Che non può essere lasciato al deprimente chiacchiericcio che sta andando in scena sul palcoscenico della vita pubblica. E che richiede di pensare in grande ed agire in grande se se ne ha l’opportunità. Ma anche di pensare in grande e agire nel piccolo, perché ognuno di noi può contribuire a costruire la comunità.