È in preoccupante espansione il fenomeno dei ragazzi che vivono nel chiuso della loro stanza e praticano solo relazioni virtuali. Sono la manifestazione radicale di una società che non incoraggia le relazioni umane. Occorre ricostruire un’idea e una pratica di comunità.
di NANDO CIANCI
Centomila ragazzi agli arresti domiciliari. Non in forza di sentenze della magistratura. Ma per scelta propria, se di scelta si può parlare. È questo il numero impressionante dei giovanissimi che nel nostro Paese vivono 24 ore al giorno, per mesi o anni, autoreclusi in una stanza, spesso con le tapparelle abbassate, avendo, come unico contatto con il mondo, la Rete[1]. Ancora ”pochi” di fronte al milione di coetanei giapponesi di pari condizione, che in quella terra uno psichiatra ha etichettato come hikikomori, termine che corrisponde al nostro stare in disparte.
Ma come si arriva a escludere dalla propria vita tutti i contatti diretti con gli altri e ad accettare solo quelli di natura virtuale? La risposta che sorge spontanea è quella più facile: la colpa è di tutte le diavolerie tecnologiche che si sono impadronite dei nostri giovani. La più facile, ma anche la più comoda e, in fondo, superficiale. Perché, in realtà, l’autoisolamento, lo stare mesi o anni senza vedere nessuno, nasce dall’esperienza di vita che si conduce nella vita reale. «Non è la rete che porta all’isolamento, semplicemente i “ritirati” si affratellano sul Web» ha dichiarato recentemente a Repubblica lo psicologo Marco Crepaldi[2]. Il quale ha fondato anche l’associazione “Hikikomori Italia”, sul cui sito vengono ipotizzate alcune possibili cause del fenomeno: caratteriali (difficoltà ad affrontare conflitti e delusioni), familiari (difficoltà di relazione con i genitori), scolastiche (la scuola viene percepita come contesto negativo), sociali (rifiuto della pressione che la società esercita sugli individui).
Si tratta di ragazzi (in maggioranza di sesso maschile) che rifiutano a loro modo, dunque, la competizione sociale, che non vogliono sottostare all’imperativo della prestazione.
Un fenomeno che, per la sua vastità e complessità, non può essere banalizzato. E che chiama in causa la società nel suo insieme e nelle sue articolazioni della famiglia e della scuola. La società si presenta con una doppia faccia, nessuna delle quali rassicurante: da un lato istiga alla competitività e a raggiungere, perciò, le prestazioni massime; dall’altro nega ogni risultato raggiunto, in quanto non spendibile in un presente difficile che pare voglia rubare anche il futuro. Sicché si genera una doppia frustrazione.
La famiglia, dal canto suo, appare sballottata in un mondo “liquido” che non aiuta a stabilire principi, valori, punti fermi sui quali costruire la convivenza tra le generazioni, l’assunzione di responsabilità di quelle adulte e la crescita di quelle giovani. E non tutti, nelle case, hanno la forza, la capacità, la possibilità di andare controcorrente nell’educazione dei figli.
La scuola, infine, da lungo tempo viene trascinata in una deriva tecnologica che disperde i contenuti culturali e sembra voler addestrare più che istruire ed educare. Che tende a separare l’apprendimento dall’insegnamento, nel senso di affidare il primo sempre più alle macchine e sempre meno all’azione viva del docente. In molti, per fortuna, dentro la scuola resistono alla deriva. Ma diviene sempre più dura.
Si tratta, in tutte e tre le sfere, di una carenza o di una distorsione di quell’ingrediente irrinunciabile della vita che è la relazione umana. La quale viene sacrificata al mito della concorrenza, al primeggiare, alla necessità di stare un passo più avanti dei propri simili nella competizione. Che, divenuto, un dogma, finisce con il permeare anche la vita degli individui. Una relazione che diviene sempre più difficile nelle famiglie, che vanno perdendo i vecchi valori della convivenza senza che ne sorgano di nuovi. E che viene osteggiata anche nella scuola, dove gli spensierati fautori della necessità di adeguare la formazione dei ragazzi alle esigenze della tecnologia (e non la tecnologia alle esigenze di formazione dei ragazzi) dimenticano che ogni opera educativa, formativa e di educazione -per essere tale- non può che basarsi sulla relazione umana.
Non può dunque meravigliare che, in tanto appannarsi delle capacità e delle possibilità di rapporti umani, ci siano sempre più ragazzini che, abbandonati a se stessi, ne traggono le conseguenze più radicali: il rifiuto totale di ogni contatto diretto e la ricerca di rifugio in amicizie virtuali che, in fondo, essi ritengono ben più solide, durature e gratificanti di quelle reali. Tanto che comincia a perdere senso persino la distinzione tra reale e virtuale: per quei ragazzi le relazioni vere e “reali” sono quelle costruite e praticate nella Rete.
Mentre tutto questo accade, il mondo degli adulti continua a ballare sulla tolda del Titanic. Sarebbe ora di svegliarsi, perché c’è molto da fare se vogliamo far tornare i sempre più numerosi hikikomori a riaprirsi agli altri e dare ancora senso ad un’idea di comunità che condivida destini, speranza e futuro. E non si riduca a una infinità di individui racchiusi nel proprio invalicabile fortino.
_________________________________
[1] Secondo il sito www.donnamoderna.it nel 2016 erano 30.000.
[2] Sul numero di venerdì 1 giugno.