Il tentativo di unificare le tante piccole tribù che si combattono sui social a colpi di odio in un unico esercito. Da tenere cementato individuando un grande nemico comune. E nascondere, così, le ingiustizie sociali e la pochezza della classe dirigente.
di NANDO CIANCI
Non so se i nostri lontani progenitori, molte migliaia di anni fa, fossero così malvagi, assetati di sangue e impegnati in una lotta per la sopravvivenza senza esclusione di colpi, anche contro i propri simili, come vengono spesso rappresentati. E se questo presunto alto tasso di ferocia fosse frutto di implacabili dettami della biologia e della genetica. O se esso invece derivasse dalle condizioni materialI di esistenza, che lasciavano poco spazio agli scrupoli che poi avremmo definiti etici per sfangarla e mandare avanti la specie. Selezionandone ed eliminandone una buona parte per strada.
O se, al contrario, avesse ragione la nutrita schiera di antropologi, etologi, psicologi, psicologi sociali, biopscicologi, zoologi ed altri scienziati che nel Documento di Siviglia del 1986 scrissero: «Non esistono prove che la guerra, come ogni altro comportamento umano violento, sia frutto di un istinto, di un programma inscritto nella natura umana»[1]. O, ancora, se non sia assai più realistica una lettura del cammino dell’umanità in un’ottica “ecologica”, cioè di una interazione tra gli organismi in sviluppo, uomini compresi, e l’ambiente[2].
La difficoltà di rintracciare una qualche ragionevolezza nell’alluvione di “commenti” infarciti di odio che da ogni più riposto angolo del mondo, arrivano sui social istante per istante su fatti (veri o, più spesso, inventati), idee e persone (delle quali, il più delle volte, non si sa assolutamente nulla) fa tornare di pressante attualità il problema di capire se, così insensatamente e inutilmente violenti, ci siamo nati o ci siamo diventati. E anche, di che ragione abbiamo oggi, di scatenarci in una cruenta mischia mediatica che, se le teorie dell’innata belluinità dell’uomo fossero esatte, sembra averci precipitato i nostri animi nella preistoria delle caverne nel mentre i nostri corpi si aggirano inebetiti nel terzo millennio.
Il primo passo di questa regressione consiste nel rinchiudersi in un fortino e proclamare nemico il resto del mondo. E comportarsi, di conseguenza, come si fosse assediati. Coloro che non accettano le nostre abitudini alimentari, le nostre opinioni politiche, la nostra “fede” calcistica, il nostro stile di vita, la nostra idea del mondo, la nostra religione (proclamata come elemento identitario e non realmente vissuta) diventano nemici, diavoli con la coda, contro i quali scagliare dardi acuminati, sotto forma di insulti e minacce, per lo più di carattere triviale.
Questo spezzettamento del mondo in tanti piccoli battaglioni fratricidi comporta una tensione continua ed un esercizio generalizzato dell’odio e della violenza -per lo più mediatico, ma non solo- che finiscono con il mettere a repentaglio la coesione di un popolo che, impegnato a combattersi per l’affermazione di micro identità tribali, smarrisce la prospettiva della costruzione di una identità orientata al bene comune. Di fronte a ciò, una classe dirigente pensosa di tale bene si interrogherebbe su quali valori sociali, culturali, civici insediare al centro del discorso pubblico e su quali strumenti e azioni educative mettere in cantiere per portare le interazioni umane, oltre che il dibattito politico, ad un livello degno delle decine di secoli di alta elaborazione culturale di cui l’umanità è stata artefice. Farebbe di tutto per convincerci che, dopo essere stati capaci di estrarre dall’animo umano capolavori immensi della pittura, della musica, della letteratura, del diritto, della saggezza popolare, non dobbiamo affogare nella melma dell’insulto, dell’aggressività, della violenza, dell’odio che straripa dai nostri interventi sui social. Ed invece, con raffinata perfidia, si sposta ad un livello più “alto” il rancore. Il meccanismo è collaudato. Si individua (anche a costo di inventarlo) un nemico da combattere tutti insieme, che consenta di riunire in un solo esercito le mille pattuglie che si combattono fra loro e di scagliarlo contro il comune pericolo. Come al tempo delle prime crociate, quando si riunivano per un comune obiettivo le tante fazioni della “cristianità”, lacerate da mille problemi temporali e spirituali. Ecco, dunque, la grande (dal punto di vista propagandistico) e cinica (dal punto di vista etico) trovata per l’oggi: ci stiamo lacerando per la disoccupazione, le nuove povertà, il crescere galattico e scandaloso delle distanze tra nababbi, ceto medio e disperati; fino ad ora è stato possibile deviare il malcontento verso i piccoli bersagli delle microscopiche appartenenze e verso quello, più corposo, della “casta”. Ora, man mano che i rancori si consumano e che mutano le posizioni in campo (per esempio: chi sparava a zero contro la “casta” entra a far parte della casta e dunque non può sparare contro se stesso), l’odio di piccolo cabotaggio non rende più. E si rischia che, prima o poi, il malessere vada a rivolgersi verso chi ne è la causa prima: il sistema che garantisce arricchimenti stratosferici a prezzo di povertà sempre più diffuse. Urge, dunque, un nemico contro cui unificare le tante tribù del malcontento e a cui addossare la causa di disoccupazione, crisi del welfare, declassamento della sanità, arretramento delle conquiste sociali. E il nemico è bello e pronto: il migrante che viene a “rubarci” il lavoro, ad intasare i nostri ospedali, ad assorbire le risorse destinate al sostegno delle persone e delle famiglie in difficoltà. E così via.
Posta così la crociata contro il nuovo nemico, a nulla vale che le cifre smentiscano questa idea di invasione, che nella realtà non esiste, che la ragione spieghi che le migrazioni sono causate dalle guerre combattute con armi vendute dall’Occidente (da mercanti di morte che, chissà perché non incontrano lo stesso disprezzo che, giustamente, si riserva agli scafisti) e dalla fame causata dallo sfruttamento e dalla rapina delle risorse dei paesi di provenienza dei migranti. Una simile crociata, per nascondere la sua nequizia, ha bisogno di essere coperta da abiti rispettabili. Così stroncare l’esodo senza intervenire sulle cause che lo determinano diventa la nobile lotta contro le morti in mare (che davvero andrebbe combattuta) e poco importa se, per non prendere il mare, i migranti debbano vivere negli inferni in cui vengono raccolti. I vestiti servono, così, a coprire sentimenti comprensibili, ma da smantellare, come la paura dell’altro e pulsioni assai meno nobili, che hanno a che fare con il razzismo.
È un regresso pesante della nostra civiltà verso i sentieri della preistoria, se per civiltà intendiamo la progressiva conquista di relazioni umane e civili, superamento di barriere razziali, liberazione di tutti gli uomini dalle catene in cui altri uomini li hanno soggiogati, capacità di garantire a tutti l’usufrutto misurato delle risorse del pianeta. Ed è un regresso che si accompagna con l’assuefazione a scenari di morte.
Sempre, nel corso della storia, ciò che sembrava tabù insormontabile, indecenza, sentimento contronatura, violazione blasfema delle leggi “umane” e “divine” è stato legittimato quando, pian piano, è diventato credenza comune, opinione diffusa, senso comune. Nel bene e nel male. Ma quando questo processo di eliminazione dei tabù si accompagna ad una progressiva scomparsa del senso ultimo del limite dell’uomo e del mistero, ad essere attaccati non sono solo i tabù, ma anche i principi vitali della civiltà, come il rispetto per l’altro e il rispetto per la morte che, come è stato notato, «è diventata banale, tanto che uccidere è una modalità per risolvere un problema»[3].
Per chiudere il cerchio: chi scrive queste righe non sa se esiste una natura umana “buona” o “cattiva”, se abbia ragione Freud o se va dato credito al Documento di Siviglia, né come possano definirsi le interazioni tra genetica, biologia, educazione e natura. Ma attinge dall’esperienza l’idea che gli uomini sono soggetti ed oggetto dell’educazione e che comportamenti di segno opposto (cooperativi o aggressivi) possono essere stimolati e consolidati con azioni consapevoli. E con esempi alti e nobili di comportamento da parte di chi è classe dirigente ed è più in vista. Il problema dell’oggi è che parte consistente di tale classe non si eleva al di sopra della melma. Anzi, spesso, vi sguazza dentro, esibendo come prova della propria capacità l’afferrare code immaginarie di nemici inesistenti. Perché nel fango, si sa, meglio si possono nascondere i fatti nudi e crudi. La speranza è che, dal profondo dell’animo degli uomini, emerga un grande desiderio di pulizia. Cioè di umanità.
[1] Il Documento venne redatto durante l’Ottavo Congresso Mondiale della International Society for Research on Aggression. La citazione è stratta dal libro Il nemico ha la coda, curato da G. Attili, F. Farabollini e P. Messeri, Giunti, Firenze, 1996, p. V.
[2] Per ragioni di spazio, si tralascia, in questa sommaria indicazione del problema, la complessa lettura che della violenza fa la psicanalisi freudiana, rimandando allo stimolante contributo che a tal proposito, ha dato Nicola Ranieri, su questo blog, in due articoli, Il disagio della modernità e L’illusione della pace.
[3] Intervista a Vittorino Andreoli, www.agensir.it, 14 luglio 2016.