di NANDO CIANCI
Noi che … la brace del camino era di tutti. Quando nevicava ognuno poteva andare dal suo vicino a prenderne un po’. Nelle case la chiave era nella toppa, dalla parte della strada.
Noi che … le lampadine, per i vicoli del centro storico, emanavano una luce fioca, ma si girava tranquilli, perché ti aspettavi che dalla penombra emergessero solo volti amici.
Noi che … dal muraglione si vedevano le stelle; le stelle che oggi sono abbagliate dalle luci della terra.
Noi che … di notte, dall’altura sovrastante la valle si intuiva Leopardi ancor prima di averlo letto.
Noi che … nella nostra infanzia c’era ancora un po’ del Medioevo. Per esempio in alcuni canti in chiesa. E sentivamo di avere un’anima.
Noi che … le pietre un tempo non erano solo pietre. Erano parte della vita. La vecchia macina in disuso del frantoio posata al limitare della strada accoglieva viandanti di passaggio e ragazzini nelle brevi pause del gioco del pallone. Ascoltava le storie che le persone sedute su di essa si scambiavano. E, se sapevi ascoltarle, raccontava essa stessa storie di tempi passati. Una volta, ero giovincello, mi raccontò di quando al vicino portone di un possidente bisognava bussare con i piedi, perché le mani dovevano sempre recare un qualche omaggio. E raccontava di amori e di sciagure. E per ascoltarle ci voleva orecchio, come cantava Enzo Iannacci. Lo dice anche il filosofo: «a quale silenzio è necessario regredire per riascoltare qualcosa come un suono luminoso e una luce cantante; a quale silenzio bisogna dunque ridiscendere per ascoltare le pietre che cantano, e con esse il mondo»[1].
Noi che … nelle mattine domenicali gli odori sciamanti dalle cucine si rincorrevano per le vie del quartiere. Andare da casa alla piazza era un paradiso per l’olfatto e un inferno per lo stomaco, del quale gli odori mettevano a nudo la desolante vuotezza. Era bello soprattutto a settembre, perché, dice Erri De Luca, «Settembre è una rinascita del naso, ritornano gli odori schiacciati dal caldo».
Noi che … c’erano case nelle quali il primo che si alzava, al mattino, metteva l’unica giacca posseduta dalla famiglia.
Noi che … nel paese c’era ancora il silenzio dal quale affiorava il canto del muratore, del falegname, del contadino. Il canto della vita. Che a volte serviva anche a scacciare la fame.
Noi che … ricordiamo ancora gli odori dell’infanzia. Quelli belli e quelli sgradevoli.
Noi che … le partite di pallone in strada duravano dalla mattina alla sera e i giocatori cambiavano continuamente. Solo l’allegria non abbandonava mai il campo.
Noi che … a primavera sentivamo la terra sprigionare lenta e tenera, e sensuale vita.
Noi che … sentivamo la fragranza dell’odore di una ragazza e temevamo di sciuparla toccandola.
Noi che … non pensiamo di essere stati migliori dei giovani d’oggi; forse però un po’ più fortunati, perché avevamo meno e, perciò, avevamo di più.
Noi che … non pensiamo che i nostri tempi erano più belli degli attuali, perché sappiamo che i tempi non erano più belli in sé stessi, di bello avevano che noi eravamo giovani.
E che però siamo quelli per i quali la nostalgia non è una vergogna, ma un sentimento.
Noi che … all’esame di stato si andava in giacca e cravatta, perché era un momento solenne, in cui si usciva dall’adolescenza.
Noi che … quando negli esami di stato siamo passati dall’altra parte della cattedra, ci è toccato sentire, tra ombelichi al vento e tanga sporgenti dei candidati, che Kant era il filosofo dell’aperitivo categorico e che Gabriele D’Annunzio era un noto estetista E che «siede con le vicine su la scala / a filar la vecchierella», volta in prosa, significa che la donzelletta venuta dalla campagna si era seduta sulla scala, intrattenendosi con le vicine e “filandosi” la vecchierella.
Noi che … quando reclamavamo un nostro diritto ci veniva spesso da pensare a quale fosse il nostro dovere.
Noi che … lavorando a scuola siamo stati bombardati per decenni da circolari, norme, procedure e altre torture dell’intelligenza; noi che questo bombardamento ci voleva spegnere l’animo, ma
-abbiamo continuato a pensare che nelle aule scolastiche ci fossero esseri umani, e non algoritmi;
-abbiamo continuato a gustare, la sera, un’ode di Orazio o ad appartarci con Leopardi;
-siamo stati ancora capaci di abbandonarci alle note di Grieg, di danzare con Nietzche, di emozionarci alla visione delle alture del Tour de France con le carezzevoli note del Bartali di Paolo Conte nelle orecchie; abbiamo continuato, a sessant’anni suonati, a canticicchiare con malinconico godimento le canzoni dei Rokes della nostra gioventù (..e la pioggia che va…, ..lascia l’ultimo ballo per me …).
Noi che il nostro cuore non sa per chi battere prima: per i nostri fratelli umani che vedono sotto gli occhi il mare trasformarsi da orizzonte di speranza in incubo mortale, per Bologna, per Genova, per Amatrice, per L’Aquila. Ma che sappiamo anche che senza un po’ di leggerezza il cuore si ferma.
Noi che … non ci sentiamo affatto retorici se, avendo una sera in casa tanti amici, diciamo che è una cosa bellissima.
[1] Carlo Sini, Il gioco del silenzio, Mondadori, Milano, 2006, p. 17.