Elevando ad entità supreme l’economia e la tecnologia, l’uomo ha rotto il patto con la natura e con la divinità divenendo, da beneficiario e custode, distruttore del mondo. L’allarme degli scienziati: senza un ripensamento rischiamo di vedercela davvero brutta.
di NANDO CIANCI
Sembrerebbe che il Pianeta, dopo un attimo di sosta, abbia ripreso la sua corsa verso il limite estremo, quello da cui non si torna indietro. L’attimo è durato due anni, il 2015 e il 2016, che per la storia del mondo sono meno di un soffio. Nel corso di essi l’emissione di gas serra aveva interrotto la sua continua ascesa e si era mantenuta stabile. Nel 2017 è ripresa la marcia di avvicinamento al superamento di 1,5 gradi in più di temperatura della terra rispetto all’età preindustriale.
Un mezzo grado oltre tale limite metterebbe più che in dubbio la tenuta degli ecosistemi più fragili, con la perdita del proprio habitat per l’8 % dei vertebrati esistenti, per il 16 % delle piante, per il 12% degli insetti. Aumenterebbe, inoltre, la parte di popolazione mondiale esposta alla siccità e quella interessata da inondazioni. Se poi la temperatura aumentasse di più di due gradi, potremmo avere lo spopolamento delle regioni tropicali, estati (in media una ogni dieci anni) senza ghiaccio all’Antartide, città sempre più calde. Gli incendi intorno al Circolo polare artico, di cui abbiamo avuto un assaggio nell’estate scorsa, potrebbero entrare a far parte della consuetudine.
L’allarme viene lanciato dal Gruppo Intergovernativo di esperti del cambiamento climatico (Ipcc), nel quale collaborano scienziati di 194 paesi, sotto l’egida dell’Onu. Nel documento redatto a conclusione di un summit in Corea del Sud viene indicata anche la strada obbligata per non cadere nel baratro: tagliare le emissioni di anidride carbonica del 49 %, rispetto a quelle attuali, entro il 2030 ed annullarle nel 2050. Il che comporterebbe un investimento di 2.400 miliardi ogni anno (oggi siamo solo a 333). Cifre che, nella realtà, si sostanzierebbero in un modo profondamente diverso di sfruttare le risorse energetiche, di produrre, di costruire e abitare paesi e città, di muoversi nel proprio territorio e per il mondo.
L’obiettivo è chiaro e, come tutte le cose evidenti, sarebbe facile da raggiungere, se fosse guardato nella sua nuda realtà. O anche seguendo il semplice istinto di sopravvivenza. Ma così non è, per diversi motivi.
Quello che salta subito agli occhi riguarda l’ostinazione con cui governanti di grandi potenze continuano a pensare che l’unica ragione che giustifichi la presenza degli uomini nel mondo e la fondazione degli stati sia il business. E che esso sia la base della felicità, che ogni uomo ha diritto a perseguire ad ogni costo. Anche a quello dell’infelicità degli altri. Sicché dagli accordi sul clima ci si ritira, in quanto vengono visti come un fattore di freno allo sviluppo dell’economia. O si è pronti a ritirarsi ogni qual volta una qualche crisi tenda a mettere freno alla propria espansione commerciale e finanziaria. Un tale atteggiamento deriva, a sua volta, da almeno altri due fattori. Il primo è che l’economia e la tecnologia, che sono le vere divinità che dominano nella mente di quei governanti (e, sempre di più, anche dei “popoli” che li sostengono), non hanno alcun senso del limite: non ammettono che nulla ostacoli la loro corsa, neanche, per l’appunto, l’andare in tilt del Pianeta. E, non avendo esse il senso del limite, ne espropriano anche l’uomo.
A tale aspetto generale, va aggiunto che la politica, in più di una latitudine, va sempre più divenendo il regno di ciarlatani asserragliati sulle loro poltrone e per le cui forze è impresa impossibile guardare anche di qualche centimetro al di là del proprio naso. Per cui, per risolvere la questione, basta bollare come “catastrofisti” coloro che lanciano l’allarme (non importa se si tratta di migliaia di scienziati sparsi per tutto il mondo ed appartenenti a culture, religioni, etnie, stati molto diversi fra loro e, quindi, non sospettabili di essere al servizio di un unico occulto padrone che vorrebbe ostacolare la felicità umana limitando l’utilizzo delle risorse della Terra).
A tutto ciò si accompagna una sorta di abitudine, ingeneratasi nel senso comune, a ballare sulla tolda del Titanic, con la colonna sonora di un certo qual senso di onnipotenza secondo il quale nulla potrà mai arrestare il cammino della nostra specie (male che vada, esaurite le risorse della Terra, ce ne andremo ad abitare in altri pianeti).
Così come si manifesta, ancora nel senso comune, una sorta di bulimia con cui vengono inghiottiti quotidianamente notizie, bufale, commenti, opinioni, reazioni, invettive, contumelie e che fa a volte smarrire il senso delle proporzioni. Sì che ci si appassiona in centinaia di migliaia per il matrimonio di principi reali e si ascoltano distrattamente notizie sullo stato della Terra. O si è pronti a prendere i forconi per togliere i vitalizi ai parlamentari e si glissa sui potentati economici, finanziari e politici che stanno spolpando il Pianeta e riducendo in miseria masse sempre più ampie di uomini.
Governati e governanti sono il risultato di un lungo cammino che ha scacciato il sacro e il senso del mistero dal mondo, ha rotto l’alleanza umana con la divinità (che secondo il racconto biblico, ed anche di altre religioni, ci aveva affidato sul creato una signoria che non prevedeva di mandarlo all’aria) e con la natura (che non è altro da noi, ma di cui noi stessi siamo parte), ha consegnato la parte che l’uomo aveva nel decidere il destino del mondo a fattori, come la tecnologia e l’economia, che finora lo avevano accompagnato, ma che oggi sono stati elevati a rango di divinità alle cui logiche sottomettersi.
È ancora possibile arrestare questa folle corsa? Lo è se rallentiamo il ritmo, se cerchiamo nuove risorse nella nostra intelligenza e nella nostra sensibilità mortificate, se sganciamo la tecnologia dai soli usi economici e di profitto, se non ci lasciamo più incantare dai vari pifferai che si alternano nel condurci verso il baratro, se siamo disposti, ognuno di noi singolarmente, a cambiare il modo di vita, riscoprendo la sobrietà e non considerando più come nostri bisogni quelli che ci vengono indotti da coloro che devono poi venderci le merci per soddisfarli.
Altrimenti rischiamo di avviarci alla conclusione del nostro processo evolutivo, raggiungendo lo stato di homo stupidus stupidus, secondo il titolo tristemente evocativo dell’ultimo libro di Vittorino Andreoli. Stupido nel senso etimologico del termine, vale a dire che desta uno stupore immane vedere l’uomo buttare a mare millenni di reciproco adattamento con la natura, di conquiste materiali che potrebbero totalmente eliminare la miseria, di cultura e di spiritualità. A questo immenso patrimonio bisogna invece ancorarsi per dare il benservito agli stregoni della manipolazione del consenso, riacquistare il senso del limite delle risorse del Pianeta e del limite del diritto di ogni generazione ad usufruirne. Di ogni generazione, comprese quelle che devono ancora arrivare.