di NANDO CIANCI
Stiamo buttando a mare 5.600 miliardi. Tale è il valore del Prodotto Mare Lordo (una sorta di PIL degli oceani) del Mediterraneo. L’ammontare, cioè, di quanto può essere generato dai benefici che gli uomini e l’ambiente possono trarre dall’insieme dei beni naturali che compongono questo bacino. Un Prodotto Lordo che, se il mar Mediterraneo fosse un’entità economica a se stante, sarebbe la quinta dell’intera area, dopo Francia, Italia, Spagna e Turchia.
Ce lo spiega un rapporto del Wwf International e del The Boston Consulting Group, dal quale si apprende anche che quei beni si vanno progressivamente depauperando, a causa dello sfruttamento scellerato cui vengono sottoposti. Dalla sintesi che del rapporto fanno i giornali, si evince che gli ultimi 50 anni hanno visto, nel Mediterraneo, la popolazione dei mammiferi marini ridursi del 41% e quella dei pesci del 34%. Mentre l’80% dell’intera popolazione ittica è minacciata dalla sovra-pesca. Contemporaneamente, cresce a dismisura la produzione di rifiuti da parte del turismo costiero (al quale si deve il 52% dei rifiuti marini e delle spiagge).
I dati, ingenti e preoccupanti, generano un allarme che non può limitarsi alla sfera economica. Essi aprono la strada anche a valutazioni che riguardano l’etica, il posto e il ruolo dell’uomo nel mondo, l’avvenire della vita sul Pianeta, la sua “restituzione” alle future generazioni. Il rapporto, almeno stando alle sintesi divulgate, non si avventura su quel terreno. C’è in questo, forse, una malinconica saggezza: si pensa, probabilmente, che gli argomenti “etici” non siano in grado di smuovere granché. Anche i più attenti alla cura della Terra, se vogliono farsi ascoltare, debbono tradurre i loro principi in moneta sonante.
A questa “saggezza”, perciò, non può che accompagnarsi una certa tristezza: sembrerebbe che anche per perorare una causa nobile occorra riconoscere, di fatto, il denaro come valore supremo che, soppiantando ogni religione e ogni visione laica della convivenza, regola tutti gli aspetti della vita umana.
A nulla sono valse, dunque, le invettive e le critiche contro la potenza del denaro, corruttrice dell’animo e ostacolo ad un sana relazione con la natura e con i propri simili, che ci arrivano, se non dalla notte, almeno dall’aurora dei tempi. Nel Vangelo Gesù scaccia i cambiavalute e i mercanti dal tempio. Non sono da meno scrittori e filosofi di tuttt’altro orizzonte, a cominciare da Virgilio nell’Eneide: «A cosa non spingi i petti mortali, esecranda cupidigia dell’oro?»[1], che venne ripreso da Seneca[2], da Marx[3] e da molti altri. Per non parlare della nota espressione con cui Martin Lutero attribuisce al denaro una natura diabolica.
Con la progressiva trasformazione del denaro da mezzo (per conquistare beni essenziali, sicurezza per l’avvenire e, poi, agi, divertimenti, lussi) in fine (con il denaro si tende soprattutto a produrre altro denaro da accumulare, come dimostra lo strapotere che la finanza va sempre più estendendo sulla politica, sull’umanità, sulla natura) l’invettiva si è assai diffusa anche nel senso comune.
Per questa strada, si sa, si rischia di scadere in un moralismo da quattro soldi (tornano sempre loro, i soldi, anche nelle metafore). Ma puntare solo su considerazioni economiche per perorare cause che traggono da altro la loro nobiltà ci espone ad un rischio enorme e paradossale: che anche ciò che è eticamente disumano abbia diritto di affermarsi, qualora se ne dimostri l’“utilità” economica.
Va bene, dunque, utilizzare anche l’argomentazione dello sperpero economico, pur di salvare le condizioni di vita sulla Terra. Ma altrettanto saggio è non fondare troppo la speranza del futuro su questo ambiguo e vacillante pilastro, ricordando che il Pianeta deve essere salvato perché lo dobbiamo a chi viene dopo di noi (ed anche a chi è venuto prima), perché non siamo i proprietari delle sue infinite bellezze, perché il provocare continuamente e a dismisura la natura genera solo disastri, perché spegnere la vita di ambienti e di specie e di esseri viventi rappresenta il presuntuoso arrogarsi di un possesso del mondo e di un potere che non ci appartengono.
Perché non bisogna arrendersi alla constatazione che già nell’ Ottocento faceva Honoré de Balzac, quando stigmatizzava «la malaugurata tendenza dei nostri tempi a mettere tutto in cifre»[4]. Possiamo fare di più: possiamo far tornare i conti senza basarci solo sulle cifre.
[1] Eneide, III, 56-57. I versi latini Quid non mortalia pectora cogis, | Auri sacra fames vennero così tradotti, in maniera più “epica” da Annibal Caro: Ahi de l’oro empia ed esecrabil fame!/E che per te non osa, e che non tenta/Quest’umana ingordigia?
[2] Si trova in locuzione leggermente mutata in Lettere a Lucilio.
[3] Nei Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica c’è l’espressione auri sacra fames.
[4] In Splendori e miserie delle cortigiane.