Capita che gli adulti puntino il dito contro i comportamenti dei giovani. Ma dovrebbero prima guardare a se stessi, perché le nuove generazioni sono anche il frutto del lavoro educativo (o della latitanza) delle precedenti.
di NANDO CIANCI
Ogni discorso sui giovani, da parte delle generazioni adulte, dovrebbe muovere da un duplice atto di onestà.
Da un lato occorre riconoscere che la tendenza a scorgere in quelli della propria gioventù tempi migliori degli attuali è faccenda antica. Nata, probabilmente, molto prima che Cicerone certificasse il rimpianto dei tempi andati con il celebre: «o tempora, o mores»[1]. Questa tendenza ne sottende un’altra: se migliori erano i tempi, migliori erano i giovani rispetto a quelli di oggi. Con un secondo corollario: per essere all’altezza dei tempi, i giovani dovrebbero essere come eravamo noi.
Per sgombrare il campo da questo atto di patetica presunzione, occorre preliminarmente dire che le categorie di “migliore” e peggiore” riferite alle varie epoche non hanno molto senso, da un punto di vista storico. I tempi sono semplicemente diversi, soggetti alla legge inevitabile del divenire e del mutare. E solo per una certa parte dipendono dalla nostra volontà. Usiamo quelle categorie, perciò, più che altro in senso affettivo. In fondo, rimpiangendo il tempo passato, stiamo semplicemente rimpiangendo la nostra gioventù. Era questa a rendere belli quei tempi.
Detto questo, occorre spingersi ancora più a fondo e scorgere una verità che il nostro ego tende a nasconderci: se proprio volessimo ritenere i tempi andati come migliori degli attuali dovremmo concludere che non i giovani, ma gli adulti di allora erano migliori di quelli presenti. Cioè di noi. Perché, oggi come allora – per quella parte delle vicende umane che dipende da noi – sono le generazioni adulte ad avere in mano le leve della società, quelle educative in primis, e a determinare in buona parte lo spirito dei tempi. I giovani, da sempre, vi portano una carica di freschezza, di amore per le novità, di curiosità per ciò che si muove. E si lasciano conquistare anche da novità che a noi disturbano o risultano indigeste. A volte persino intollerabili. Anche noi, se vogliamo ricordarcelo, eravamo motivo di preoccupazione, e qualche volta di irritazione, per gli adulti di allora con le nostre “stravaganze” musicali, vestiarie, relazionali, politiche e così via. Tutte le generazioni, insomma, hanno avuto il loro bel daffare con le successive.
Certo, oggi le cose sono più complicate, ma al fondo delle difficoltà vissute dai giovani, e da noi con loro, vi è una lettura non attenta dei cambiamenti che stiamo vivendo. Perché più complicate? Perché nella nostra vita è mutato un equilibrio fondamentale: quello tra la nostra natura biologica e la tecnologia che da sempre ci accompagna e ci ha permesso di sopravvivere e di progredire nonostante la nostra costitutiva debolezza rispetto a molti altri inquilini del pianeta. La componente tecnologica della nostra esistenza, dapprima minoritaria, poi in equilibrio, ha preso decisamente il sopravvento nella nostra vita. Le affidiamo sempre più funzioni, al punto che sembra più essa a dettare tempi e modi della nostra vita che non noi a servirci di essa. Da mezzo, in una parola, sta diventando fine dell’agire umano, sempre più proteso al potenziamento infinito della tecnologia.
Tutto ciò comporta, ovviamente, conseguenze nella formazione e nell’educazione delle nuove generazioni. Infarcite sin dalla più tenera età di dispositivi elettronici e digitali, esse vengono sempre più private delle esperienze fondamentali legate allo scrivere a mano (e al connesso pensiero lento, riflessivo, analitico e sintetico), del manipolare materiali, del costruirsi giocattoli con le proprie mani, dello scorrazzare liberamente nella natura. Tutte esperienze che le generazioni precedenti hanno condotto e che influiscono nella “costruzione del cervello”[2]. Ridotti gli impulsi provenienti da quelle attività, ne prevalgono altri che hanno per caratteristiche la rapidità, l’irriflessività, la risposta immediata agli stimoli (facilmente manipolabili). Insomma il cervello prende, in qualche misura, altre strade. Da questo cambiamento epocale – che anche noi adulti viviamo, spesso in maniera inconsapevole, e verso il quale non riusciamo ad elaborare un pensiero – nascono le difficoltà di leggere certi comportamenti giovanili che ci sconcertano, il senso di impotenza che a volte ci assale, il nostro non saper che pesci prendere. Di qui, anche, la ricerca di scorciatoie: bisogna tornare ad essere più severi, punire in modo esemplare i comportamenti irresponsabili e così via. Tutte cose che, non affrontando il problema nelle sue complesse radici, rischiano di essere solo una goccia d’acqua fresca su un masso arroventato. Perché molti giovani non sanno neanche cosa siano quei “valori” che vorremmo ripristinare con una nostra ritrovata severità. Non sanno di cosa stiamo parlando. E quindi non capiscono il senso del nostro inalberarci e sanzionare.
Che fare, allora? Discorsi complessi richiedono elaborazioni complesse. E richiedono, prima di tutto, l’assunzione di responsabilità non velleitarie da parte degli adulti. Che potrebbero iniziare con il chiedersi cosa hanno fatto, mentre questi giovani crescevano, per tenere vivo, arricchire e consegnare ai ragazzi l’enorme giacimento culturale che la nostra civiltà ha accumulato nei millenni e che a loro volta avevano ricevuto in affidamento durante la formazione. O con il chiedersi se, riducendo gli anziani al silenzio, non stiano sperperando un enorme patrimonio di esperienze, di storie, di racconti, di cultura orale indispensabile per mantenere viva una comunità. O, ancora, con il chiedersi se, consentendo che la scuola venga sempre più sequestrata dalla logica aziendalistica e produttivistica, non stiano ulteriormente affossando quei valori che vorrebbero magicamente veder incarnati nei giovani.
Porsi queste domande, e cercare risposte all’altezza dei tempi, sarebbe già un buon inizio.
[1] Nelle Verrine e nelle Catilinarie.
[2] Cfr. Lamberto Maffei, Elogio della lentezza, il Mulino, Bologna, 2014, pp. 23-33.