Sono diventate ormai legioni le schiere di quanti non considerano vissuto un avvenimento se non hanno intasato con le sue immagini il supporto digitale con il quale sostituiscono gli occhi. Li vedi ovunque aggirarsi con la loro arma digitale puntata: allo stadio, in teatro, ad un concerto, nel mentre seguono una guida turistica. Sempre a riprendere e smanettare con un dispositivo digitale.
Il ricorso a questo vero e proprio maggiordomo delle immagini senza il quale ci sentiamo disarmati nel presente e smemorati rispetto al passato non è solo un aspetto di costume, al punto che da più parti vengono lanciati gridi di allarme circa il rischio di estinzione, o di forte riduzione, della memoria come facoltà umana. La cui vitalità viene fortemente attaccata dal fatto che affidiamo in misura sempre crescente a supporti digitali il compito di immagazzinare dati, conoscenze, documentazione di fatti vissuti o osservati. Il che annulla o riduce fortemente il lavoro con il quale andiamo a cercare i ricordi dentro di noi. Per esempio: se volessimo riandare con il pensiero al giorno della laurea o del matrimonio, istintivamente ci dirigeremmo verso lo smartphone, o il tablet o il pc dove abbiamo stipato le foto. Spesso, nel mentre scattiamo o ci facciamo scattare quelle foto, sappiamo già – più o meno consapevolmente – che non abbiamo bisogno di imprimere quel momento nella nostra mente, poiché ce l’avremo a disposizione quando e dove vorremo. Il che ha almeno due effetti.
Il primo è che, mentre scorre l’avvenimento, siamo più impegnati a riprenderne le immagini che a viverlo intensamente e interiormente. Il secondo riguarda il momento del ricordo: ricorrendo alla pluralità di immagini fissate sul supporto non svolgiamo più quel lavoro di fantasia e mnemonico insieme, che consiste nel ridipingere dentro di noi i colori, nel rielaborare le scene e le emozioni che avevamo provato e che rivivremmo trasfigurato dal tempo. Insomma: invece di vivere la vita, consumiamo immagini.
Ma c’è un altro e più profondo livello nel quale il problema si inscrive: non solo affidiamo al ricordo digitale le esperienze che viviamo, ma cominciamo a far vivere alle macchine anche le esperienze presenti al nostro posto. Sempre più attività e relazioni che prima richiedevano l’impegno del nostro fisico e della nostra coscienza ora vengono da noi semplicemente osservate mentre dispositivi vari e l’intelligenza artificiale se ne occupano.
La memoria non è, come tutti sanno, un recipiente vuoto nel quale immagazziniamo ricordi che restano poi a nostra disposizione come un archivio da consultare e nel quale ritroviamo tutto ciò che vi abbiamo riposto. E neanche una pellicola fotografica nella quale imprimiamo immagini indelebili.
Essa è, al contrario, una zona della nostra interiorità che vive, in un certo senso, una sua vita propria. Che a volte riporta con prepotenza alla nostra attenzione fatti o sensazioni in modo imprevisto e non cercato. Altre volte, quando li cerchiamo, i ricordi sono altra cosa da quel che abbiamo realmente vissuto. Perché li guardiamo con gli occhi dell’oggi e li viviamo con il carico di esperienze che nel frattempo si è depositato sulla nostra vita. Il che porta anche a forme di creatività: i ricordi, fondendosi con la vita attuale e con quello che in noi è rimasto del mondo al quale essi si riferiscono, trasfigurati più o meno consapevolmente dalla fantasia e dall’idea di quel che avremmo voluto essere, danno luogo alla magia del racconto o a forme di espressione artistica.
Tutto questo mondo, che è ancor più complesso di quanto abbiamo cercato di dire qui con poche parole, si nutre con il flusso di esperienze, consce ed inconsce, interiori ed esteriori, che attraversiamo vivendo. E, nel momento in cui deleghiamo alle macchine il compiere attività (e quindi esperienze) al nostro posto, rendiamo questo flusso meno intenso, meno ricco e – privandola del materiale di cui si alimenta – rendiamo più arida, e comunque indeboliamo, la nostra memoria.
A tale menomazione se ne aggiunge un’altra, ampiamente sottovalutata: quella della perdita del patrimonio orale dei ricordi degli anziani, ai quali nelle relazioni quotidiane abbiamo ormai tolto la parola. Con il loro silenzio svanisce un tesoro di storie, miti, leggende, racconti che le generazioni si sono tramandate mantenendo in vita una cultura orale, una oralità, che la scrittura – nelle migliaia di anni della sua esistenza – non ha mai del tutto spento.
Questa sorta di rinuncia a portare con noi, nella memoria delle collettività, quel mondo immateriale che sembra destinato alla scomparsa, ha effetti molto evidenti sulle nostre capacità di parlare in modo appropriato, di scrivere in modo corretto, di esprimerci reciprocamente sentimenti in modo vivo e non pomposo e retorico come si fa sui social. Incide, insomma, sulle relazioni umane e sulla possibilità stessa di vivere in comunità fondate su valori comuni, legami affettivi, cementi solidali. Ed incide anche sulla nostra capacità di leggere il mondo in cui ci è toccato vivere, poiché siamo sforniti degli strumenti che in migliaia di anni le comunità umane, nel bene e nel male, hanno costruito. In due parole: l’affievolimento della memoria ci rende più poveri.
A spiegare tutto ciò viene sempre chiamata in causa la straripante invasività delle nuove tecnologie nelle vite singole e nella società. Il che è sotto gli occhi di tutti. Ma in ogni epoca del suo cammino la specie umana si è trovata di fronte a cambiamenti che noi oggi sogliamo definire “epocali”. Cose che a noi sembrano oggi di poco conto rispetto alle nostre sono state sconvolgenti per altre generazioni, almeno in alcune parti del mondo (le invasioni barbariche, la scoperta dell’America, l’invenzione della macchina a vapore, per fare qualcuno tra le centinaia di esempi possibili). Di fronte ad essi le generazioni coinvolte hanno, bene o male, costruito pensieri e pratiche di vita che hanno consentito loro di andare avanti senza dilapidare quanto l’uomo aveva elaborato in precedenza.
Quel che sembra caratterizzare il nostro tempo è la rassegnazione ad affidarsi alle mani delle macchine e dell’intelligenza artificiale, ad assistere impotenti all’avanzare di un nuovo analfabetismo e di una nuova ignoranza, a convincersi pian piano che il Pianeta, se vuole salvarsi, deve arrangiarsi da solo. Manca insomma la capacità di elaborare un pensiero e delle azioni all’altezza dei problemi del nostro tempo. Non lo fanno più, essendo praticamente scomparsi, gli intellettuali collettivi (i partiti, le grandi associazioni culturali e così via). Gli intellettuali singoli, se pur ve ne sono all’altezza, non contano nulla se non hanno visibilità mediatica (il che avviene per pochi e non è detto che questi siano i migliori). La scuola, a sua vola, non gode di buona salute (e qui il discorso sarebbe davvero lungo).
Insomma l’orizzonte è alquanto offuscato. Ma la storia, a volte, riserva delle sorprese che gli uomini non sanno cogliere in tempo. O forse potrebbero farlo, se non rinunciassero del tutto alla memoria.
Le immagini che corredano l’articolo risultano di pubblico dominio.