Attraverso una vicenda autobiografica, la disseminazione dei germi della “Buona scuola”. Scoperti dopo un buon piatto di spaghetti con le vongole e un bicchiere di Trebbiano.
di NANDO CIANCI
All’inizio del millennio, stavo facendo il corso per diventare, da preside, dirigente scolastico. Ero risultato idoneo al concorso nazionale di 10 anni prima, per preparami al quale mi ero formato all’idea che il preside dovesse essere prima di tutto un uomo di cultura, capace di pensiero e di relazioni umane. A volte, durante quelle giornate surreali, alcuni “docenti” del corso premettevano al loro intervento l’assicurazione che tutto il loro dire sarebbe stato frutto del pensiero di altri, di autorevoli “esperti” e ricercatori. Argomentazioni “oggettive”, scevre da ogni personale elaborazione. Il che reclamava, di fatto, l’assenza di pensiero autonomo da parte nostra nell’interagire con loro.Cominciavo a nutrire qualche preoccupazione sul che cosa si volesse da noi come dirigenti delle scuole. Mi ero formato all’idea di conquistare con lo spessore culturale l’autorevolezza che si richiede a chi guida un consorzio di uomini impegnati nell’azione educativa ed ora mi si magnificava l’assenza di pensiero come requisito di pregio per fare il “dirigente”.
Dopo una di queste lezioni “oggettive” mattutine, fummo divisi, nel pomeriggio, in gruppi di lavoro. Al mio venne affidato il compito di analizzare una situazione estremamente problematica e mostrare le nostre capacità decisionali risolvendola. Il quesito era, pressappoco, il seguente: hai a disposizione la possibilità di salvare una sola persona tra un gruppo di malati che, senza quella terapia (un farmaco o un macchinario, non ricordo bene) perderanno la vita. Poi venivano elencate alcune caratteristiche delle persone malate: una era giovane e in procinto di sposarsi; un’ altra era più matura, con dei figli non ancora indipendenti; una terza aveva una anziana mamma, anch’essa malata, che non sarebbe sopravvissuta se il figlio non avesse a sua volta trovato la guarigione; un’altra era una ragazza madre. E via discorrendo, in una sadica composizione di guai collaterali che ognuno dei malati gravi in questione poteva esibire per convincere il “dirigente” a salvargli la vita (a lui solo, come si è detto).
La mia prima reazione fu influenzata, debbo confessarlo, dal pranzo sostanzioso che, con altri “corsisti”, colpevolmente, mi concedevo nell’intervallo, incurante del fatto che le fatiche pomeridiane avrebbero richiesto freschezza mentale e leggerezza fisica. Ma, a nostra scusante, va detto che dovevamo in qualche modo risarcirci delle mattinate asettiche che ci venivano inflitte. Alla proposizione del quesito seguì, perciò, un senso di fastidio per il profilarsi di un pomeriggio inutile quanto la mattinata. Mi sentivo alle prese con un problema demenziale.
Poi, man mano che la pesantezza postprandiale evaporava, al fastidio cominciò a subentrare una sorta di irritazione, nascente dal fatto stesso che un tale quesito venisse posto in quel consesso, come se, invece che dirigenti scolastici, si stessero formando dei direttori di lager, che dovevano addestrarsi a stabilire chi dovesse vivere e chi morire.
Infine, subentrò il senso di responsabilità: per guidare un istituto scolastico (lo sapevo, essendo già preside da 10 anni) occorreva far fronte a situazioni disperate, a volte assai strane, o sgangherate, o al limite della follia. Presentate sempre con grande serietà da chi le recava in presidenza. E, dunque, lasciai sbollire l’irritazione, rinunciai all’idea di lanciarmi in un corpo a corpo dialettico con il relatore che aveva proposto il quesito e pensai a come potessi uscirne, con la pazienza e la magnanimità che ai presidi (almeno fino ad allora) veniva quotidianamente richiesta.
Riflettei sull’assurdità del quesito, che presentava una situazione del tutto separata dal contesto umano e sociale nel quale sempre operiamo. E, perciò, proposi la soluzione più “umana” di cui fui capace: se mi fossi trovato in una tale disperata contingenza, avrei mobilitato tutte le energie possibili presenti nella comunità (singole persone, enti, associazioni, istituzioni) perché si cercasse nel più ampio raggio possibile la presenza di altri farmaci e/o macchinari che potessero assicurare a tutti i malati la necessaria terapia. Volevo dire che nessuna istituzione può essere diretta se si prescinde dalla solidarietà sociale e dalle relazioni umane.
La mia soluzione esulava dalla “consegna” e non accettava la ferrea logica binaria del sì o no (quella del computer, per intenderci). Venne, perciò, subito deposta con sufficienza, per dar luogo a sciabolate dialettiche con le quali ogni tesi (salvare l’uno o l’altro dei malati) veniva difesa da altri più manageriali colleghi, impegnati nella disputa fino a diventarne paonazzi.
Com’è andata a finire? Superato il corso, ho continuato a fare il preside (anche se poi mi chiamavano dirigente) per altri 11 anni, con la cocciuta convinzione che nei collegi dei docenti, di fronte a me, e nelle aule scolastiche, tra i banchi, ci fossero esseri umani e non algoritmi. È stata dura, perché ho dovuto farlo sotto il bombardamento di norme e di comportamenti che volevano indurmi al contrario. Ma quando ho chiuso per l’ultima volta il mio ufficio di presidenza ero ancora capace di gustare una ode di Orazio, di appartarmi con l’amato Leopardi, di dialogare con Platone e danzare con Nietzsche, di abbandonarmi alle note di Grieg, di emozionarmi alla visione delle alture del Tour de France con le carezzevoli note del Bartali di Paolo Conte nelle orecchie, di canticchiare con malinconico godimento le canzoni dei Rokes della mia gioventù. Soprattutto: di guardare negli occhi studenti, docenti, personale, genitori. E continuavo a pensare che la scuola serve a vivere meglio, non a produrre di più. L’“oggettività” delle sirene produttivistiche non erano riuscite ad ammaliarmi. Ma non per questo smisero di suonare.
Mentre uscivo per l’ultima volta, alla stessa porta bussava la “Buona scuola”. L’ho incontrata sulla soglia e l’ho subito riconosciuta: i suoi germi erano già dentro la scuola. Vi erano entrati quel giorno che volevano farci scegliere chi far vivere e chi lasciar morire per mostrare la nostra “razionalità”.
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