Le campagne di odio condotte nella vita pubblica stimolano l’esplosione di istinti belluini. Con seri pericoli per la tenuta civile e democratica del Paese. Eppure gli uomini si sono uniti in società per solidarizzare, non per azzannarsi.
di NANDO CIANCI
In una piazza della città natale di Ovidio, una signora pensa di accogliere il capo della Lega, arrivato per un comizio, srotolando dalla finestra uno striscione recante una frase con in calce la firma del suo celebre compaesano: «Empio è colui che non accoglie lo straniero»[1]. Una signora di diverso parere, su Facebook, commenta la notizia invocando per l’autrice del gesto una punizione inappellabile: che venga prontamente stuprata. Se volessimo celiare dovremmo prima di tutto notare la sproporzione tra la colpa rimproverata (uno striscione, per così dire, riflessivo) e la pena suggerita (espressione massima e brutale di violenza). Ma non è il caso di scherzare. Un altro impavido maneggiatore di tastiera si esibisce in un virtuosismo da gentiluomo, aggiungendo che anche nel subire uno stupro si può provare piacere[2]. Le due oscenità saranno poi cancellate, senza che i due autori se ne scusino.
Questo episodio, non isolato, ma emblematico di un modo diffuso di stare sui social, richiama, da un lato, considerazioni relative all’influenza che l’utilizzo delle nuove tecnologie ha sulla psicologia e sui comportamenti umani schizofrenici, tenendo conto che nel profilo FB della hooligan dello stupro fanno bella mostra di sé «foto in chiesa con la statua di Padre Pio» e in quella del suo socio digitale possiamo ammirare «gli angioletti e i paesaggi innevati». Per questo aspetto mi permetto di rimandare all'articolo Lo schermo di Mister Hyde.
Dall’altro lato, la vicenda ci interroga sulle conseguenze dell’avvelenamento in atto della vita pubblica. Riguardo a ciò, questa evocazione di violenza si inserisce in un clima di generale infrazione di ogni limite di rispetto che si deve a ciascun appartenente alla specie umana, quale che ne sia la provenienza, il credo religioso o ideale, la cultura nella quale si è formato. E, dovrebbe essere persino banale ricordarlo, quale che ne sia il colore della pelle. Infrazione che rappresenta una brusca battuta d’arresto nella diffusione di principi di convivenza civile che a 71 anni dalla promulgazione della Costituzione sembravano aver improntato la vita del nostro Paese. La civiltà ha percorso diverse migliaia di anni anche per questo: per sostituire, agli istinti peggiori di cui la nostra specie pare cospicuamente dotata, la capacità di costruire comunità in cui l’unione ci difendesse da pericoli troppo grandi per i singoli individui e la relazione sociale e affettiva ci elevasse nella sfera dei sentimenti e ci difendesse anche da noi stessi.
Augurare di subire uno stupro quale punizione per aver manifestato un’idea rappresenta, dunque, un regresso a situazioni belluine, con la variante di brandire la tastiera al posto di armi contundenti. Nei branchi, per la verità, questo truce modo di affermare potenza e “virilità” non è mai venuto meno, tanto nelle aberrazioni delle soldataglie di stati dittatoriali o guerreggianti, quanto in aggregazioni di sbandati nelle società più democratiche. Ora sembrerebbe che l’idea (chiamiamola così) dello stupro quale antidoto alla libertà di espressione si impadronisca anche di singoli individui (che poi a suggerire quest’arma ipersquadristica nel confronto politico sia una donna lascia davvero sgomenti). Ma una pulsione individuale di tale nefandezza non avrebbe mai il coraggio di venire allo scoperto se non avvertisse un clima nel quale simili esternazioni vengano tollerate, e magari anche ammirate. O, giacché il clima generale, per fortuna, è assai più composito e non riducibile in toto a questa sconfortante volgarità, se non si pensasse che comunque ci sarà chi apprezzerà. O, ancora, se non ci si sentisse forti nel partecipare ad una campagna di odio messa in moto e istigata da livelli che si ritiene “più alti”. Sicché non è difficile ricondurre episodi come questo alla degenerazione del confronto politico, al caricare scelte politiche umanamente spietate con insulti verso chi si oppone e, per ciò stesso, diventa traditore, complice di chi attenta ai sacri confini della patria, pigro animale da salotto imbevuto di idee “buoniste”. Il che non diminuisce l’improvvidenza di chi, anche da sponde politiche diverse, accetta di partecipare alla sagra dell’insulto e risponde brandendo a sua volta la tastiera come un bazooka per centrare l’avversario, invece di stimolare la riflessione di chi legge. Accompagnando, anche qui, le armi dell’insulto con il condimento degli auguri per pronte e dolorose punizioni corporali.
A fronte del dilagare della barbarie, dialogare anche con chi esprime idee lontanissime dalle proprie rappresenta un valore fondante per una comunità che si liberi dai veleni relazionali e in cui si pratichi una dialettica -anche aspra, ma “umana”- per affermare principi ed obiettivi. Non derogare mai dal rispetto dell’avversario in quanto persona dovrebbe rappresentare ormai un discrimine essenziale anche nella politica: le forze che non si impegnano, nei fatti e nelle parole, contro aberrazioni come quella espressa dagli aggressori della signora sulmonese (o, addirittura, concimano il terreno culturale sul quale esse possano nascere), finiscono con il divenire un pericolo grave per la tenuta democratica, sociale e civile del Paese. Vanno fermate, prima che la storia ci presenti il conto del loro avanzare: è già successo e qualcosa avremmo pure dovuto impararla.
[1] La frase riassume liberamente il senso della narrazione del mito di Filemone e Bauci, che Ovidio fa nel libro VIII delle Metamorfosi.
[2] L’intero episodio viene raccontato, sul suo blog Maperò, dalla giornalista Lilli Mandara (per ciò stesso co-destinataria delle minacciose volgarità), che informa anche sui contenuti dei profili FB dei due commentatori, riportati di seguito nei virgolettati.