Con l’incattivirsi dei rapporti umani, anche l’etica viene affidata alle macchine. Che, però, sono del tutto indifferenti ai problemi morali e riconoscono un solo fine alla loro azione: funzionare.
di NANDO CIANCI
Quante cose può dirci una foglia di lattuga: da dove viene, come è stata piantata e concimata, da quanti fertilizzanti è stata nutrita, da quali pesticidi è stata accarezzata per resistere agli attacchi della peronospora. E persino quanta acqua è stata usata per irrorarla. Insomma: se e quanto è "sana" e se può aspirare alla qualifica di “prodotto etico”.
Certo, non è facile appurare tutto ciò, né ogni singolo consumatore può aggirarsi come uno Sherlock Holmes tra i banchi della frutta e verdura o disporre di un personale laboratorio di analisi. Ci si dovrebbe, perciò, fidare, di quanto dichiara il produttore. Ma, per quanto sia modesto, l’oggetto dell’indagine qui apre scenari che coinvolgono anche l’etica. Parafrasando Brecht, potremmo dire che, se «un buon brodo di carne va benissimo d’accordo con l’umanesimo», anche un mazzetto di cicoria può risultare compatibile con la dimensione etica dell’uomo. Ci richiama a questa considerazione la notizia che nel giro di qualche anno (negli Usa avverrà già nel prossimo settembre) potremo recarci a fare la spesa utilizzando lo smartphone come strumento di indagine che ci svelerà tutte le tappe della strada percorsa da frutta e verdura prima di giungere sulla nostra tavola. E ce ne rivelerà anche la fedina penale: i fornitori dovranno caricare tutti i dati di cui si è detto sulla blockchain (anglicismo che, all’ingrosso, sta ad indicare una sorta di registro digitale, articolato in pagine fra loro concatenate) e il consumatore li potrà scandagliare scansionando il Qr code (il codice a barre) che accompagna il prodotto.
Le macchine, dunque, e segnatamente le "intelligenze artificiali”, ci offrono ora anche un surrogato dell’etica, certificando l’onestà di un percorso? La fiducia tra gli esseri umani, si sa, tende di questi tempi a scendere inesorabilmente. Per ragioni diverse.
La prima è che -se non si dispone di un animo sufficientemente beota, capace di “bersi” tutto ciò che si incontra in rete di funzionale alle proprie opinioni- l’imperversare delle fake news, le notizie false, ci predispone alla diffidenza verso qualsiasi cosa leggiamo sui social o ci arrivi tramite le nuove tecnologie. Inoltre il lavoro immane che, tramite i bot (per i quali richiamo l’articolo qui a fianco, nella rubrica “La Neolingua”), i potenti del web svolgono per spiare le nostre abitudini, i nostri gusti, le nostre “tendenze” politiche e culturali per portarci esattamente dove vogliono loro (negli acquisti, nel voto, nelle campagne di opinione) spinge chi non è in preda alle sbornie mediatiche a rafforzare vieppiù la diffidenza verso le notizie di cui è destinatario. Insomma nella rete spira un’aria di falso che ammanta ed avvelena la comunicazione. Nella vita quotidiana, ancora, per ragioni che sarebbe lungo qui esaminare (e alle quali non è estraneo l’uso dei social di cui si è detto) vanno pervicacemente rafforzandosi l’infingardaggine, l’individualismo esasperato, la ricerca del tornaconto personale che travolge ogni barriera etica, l’incattivimento, come si dice con una sola parola. A detrimento dell’idea di bene comune e del rispetto nelle relazioni umani tra persone e gruppi. Se poi, per tornare per un attimo al nostro banco di frutta e verdura, aggiungiamo la constatazione che la cronaca non è mai stata avara di episodi di sofisticazioni alimentari, di frodi e di ruberie commerciali varie, il quadro è completo. Il che, fatta salva l’onestà di tanti -ci si augura dei più- fornisce solidi appigli alla diffusione della sfiducia verso ciò che troviamo nei banchi di negozi e supermercati. E di ciò che sui prodotti sta scritto. Finiamo, così, per affidare la tutela dei valori etici, che dovrebbero presiedere anche allo scambio di beni e servizi fra gli umani, ai ritrovati della tecnologia. E cerchiamo la certificazione dell’onestà in un codice a barre. Che, però, deluderà il nostro anelito alla rettitudine. Per due buone ragioni. La prima è che ci siamo invischiati in una contraddizione insolubile: le macchine, che siano “intelligenti” o meno, non conoscono l’etica, non hanno principi morali da rispettare. Hanno un solo compito insito nella loro natura: funzionare. Indipendentemente dalle conseguenze delle loro azioni. Insomma: staremmo affidando la salvaguardia di valori etici ad uno strumento che dell’etica se ne infischia. La seconda è lapalissiana: ad inserire i dati nel registro elettronico che leggeremo con lo smartphone saranno ancora, se non abbiamo capito male, gli esseri umani. E, immaginiamo, la macchina non potrà rifiutarsi di registrare qualunque dato al fornitore punga vaghezza di inserire. Dunque, è all’uomo che alla fine si ritorna. Andrebbe ricordato, a proposito di ciò, che l’economia è un’attività umana e, in quanto tale, soggetta alla regolamentazione umana. E che, perciò, considerare le sue leggi come naturali, eterne ed immutabili è una delle più colossali fake news in circolazione. Sarebbe forse il caso, allora, di rispolverare una semplice, antica e non ancora tramontata ipotesi: che bisognerebbe lavorare a fondo -nella scuola, nell’informazione, nell’esempio dei reggitori della cosa pubblica e dei personaggi a vario titolo “pubblici”- al ripristino di relazioni umane che sconfiggano il cinismo, il gusto di arraffare, la moltiplicazione smisurata del profitto che schiaccia come un rullo compressore qualsiasi altre idea di attività economica.