Ottant’anni fa moriva Antonio Gramsci. Qualche anno prima, il 28 maggio del 1928, nel corso di un processo contro i dirigenti del PCI, il pubblico ministero fascista aveva esplicitamente affermato che al cervello del dirigente comunista si doveva “impedire di funzionare” per vent’anni. Quel cervello smetterà definitivamente di funzionare il 27 aprile del 1937. Dopo otto anni di carcere (dal 1926 al 1934) e tre di ricovero in clinica. A causa del deterioramento delle sue precarie condizioni di salute. Ma fino ad allora quel cervello, anche in galera, aveva funzionato molto intensamente. Riuscendo a produrre, a partire dal 1929, il capolavoro dei Quaderni del carcere.
Gramsci si occupava di tutto. Storia e critica storica. Letteratura e critica letteraria. Filosofia. Arte, Cinema. Teatro. Giornalismo. Pedagogia. Costume e tradizioni… e ovviamente Politica. Il tutto condensato nell’immensa mole dei suoi scritti. Aveva analizzato a fondo i problemi del moderno “Principe” (ovvero del partito) nelle Note sul Machiavelli. I limiti dell’unificazione nazionale in Il Risorgimento. I problemi del nostro Mezzogiorno in La questione meridionale. Le problematiche relative al ruolo degli intellettuali in Letteratura e vita nazionale… Una straordinaria produzione che ne ha fatto uno dei più grandi intellettuali italiani di tutti i tempi. Stimato e apprezzato anche dai suoi avversari politici. Ancora nei decenni successivi alla sua morte. La sua poderosa statura culturale e morale ha fatto sì che, non molti anni fa, persino un esponente del post-fascismo (Gianfranco Fini) pretendesse di annoverarlo nel suo “album di famiglia” (!!!).
Cosa ha reso così grande la figura di tale personaggio? E, soprattutto, quale testimonianza del suo impegno intellettuale resta oggi valida come insegnamento per le attuali generazioni?
Ciò che colpisce innanzitutto della personalità di Gramsci è il suo rigore intellettuale. La sua profonda consapevolezza della complessità del reale. Che, nonostante il suo evidente radicalismo politico, lo porta a diffidare di qualsiasi forma di estremismo e di demagogia. Dai suoi scritti trapela sempre il grande lavorìo intellettuale ad essi sotteso. Segno evidente di una tenacia e di una fermezza che egli aveva senz’altro ereditato dalla sua terra: la Sardegna. Non a caso, nelle sue teorie pedagogiche, non indulge mai al “buonismo” e mai si stanca di sottolineare la quantità di “sacrificio” che l’apprendimento sempre comporta. Sacrificio che impone a se stesso e a tutti coloro che entrano in relazione con lui. Innanzitutto i suoi compagni di militanza e quei lavoratori che lo avevano seguito sin dall’esperienza torinese dell’Ordine Nuovo.
A tale proposito, mi preme sottolineare, in tempi di “populismo” dilagante, che Gramsci ne costituisce l’esatta negazione. Fedele in ciò all’insegnamento di Marx, e ben istruito dalle vicende italiane contemporanee, che vedono il fascismo trionfare con il consenso popolare, egli è ben consapevole che il “popolo”, di per sé, non è un soggetto rivoluzionario. A rigor di logica non lo é neanche la classe operaia in quanto tale. Ma solo quella dotata di “coscienza di classe”. Ovvero della consapevolezza del proprio ruolo di emancipatrice dell’intera società. E l’acquisizione di tale coscienza richiede un “salto culturale”. Apprendimento e sacrificio, appunto. Non a caso, sin dalla sua nascita, alla fine del XIX secolo, il Partito Socialista Italiano e le sue associazioni collaterali (Camere del Lavoro, Leghe, Federazioni di mestiere…) si era impegnato nell’educazione e alfabetizzazione dei suoi iscritti e dei lavoratori in genere. Gramsci è ben consapevole di tale esigenza e lo dimostra accentuando il carattere “pedagogico” che il moderno partito di classe (l’ “intellettuale collettivo”) è chiamato a esercitare nei confronti delle masse. Proprio allo scopo di trasformare un “popolo bue” in un insieme di individui coscienti della necessità di una trasformazione radicale della società. Di qui l’importanza fondamentale della scuola e di tutte le istituzioni (le “casematte” del potere) di cui il partito si deve impossessare prima ancora della rivoluzione (la cosiddetta “egemonia”).
Una funzione educativa della politica, dunque. L’esatto contrario di chi ritiene di dover conquistare il potere assecondando la “pancia” del popolo (magari anche sfruttando ampiamente le fake news) anziché promuoverne la crescita culturale.