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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

DIGITO ERGO SUM

ROBERTODall’ “adulto in miniatura” alla generazione digitale: i profondi mutamenti della condizione giovanile. Che oggi elegge a grande nemico la solitudine.


di ROBERTO LEOMBRONI

    

      La storia ci insegna che il concetto di “giovane” è relativamente recente. Fino al XVIII secolo, il bambino o il ragazzo erano considerati meri “adulti in miniatura”. Destinati, appena la loro costituzione fisica lo permetteva, ad essere impiegati nei lavori più pesanti. O, se rampolli della nobiltà, ad apprendere, grazie ai loro precettori privati, i ruoli che il ceto di appartenenza conferiva loro. È solo nell’ “età dei lumi” che si scopre la specificità della condizione giovanile. L’Emilio di Rousseau “sdogana” la pedagogia democratica. Si comincia a valorizzare l’importanza del gioco, anche ai fini dell’apprendimento. I sovrani “illuminati” istituiscono le prime scuole pubbliche, sottratte all’influenza del clero. Gradualmente i giovani irrompono da protagonisti nella vita politica dell’ “età delle rivoluzioni”. Nonché nella grande letteratura. La figura del “patriota” romantico (da Foscolo a lord Byron) è quasi sempre quella di un giovane. Mazzini è un ragazzo quando si iscrive alla Carboneria e ha 26 anni quando fonda la Giovine Italia. E hanno più o meno vent’anni i Mille di Garibaldi. I giovani costituiscono anche la categoria più facilmente suggestionabile dalla propaganda nazionalista del primo ‘900. In Italia sono soprattutto studenti i protagonisti delle “radiose giornate di maggio”, che anticipano l’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra. Saranno ancora loro a ingrossare le file delle squadre fasciste agli inizi degli anni ’20 e a determinare le fortune del partito di Hitler in Germania. Ma giovani sono anche coraggiosi antifascisti. Piero Gobetti ha 25 anni quando muore in seguito alle conseguenze dell’aggressione da parte di una squadraccia. E in gran parte giovani saranno i partigiani che sceglieranno la strada della lotta armata contro il nazifascismo quando arriverà l’età del disinganno.
    
Fin qui dunque la figura del giovane tende a identificarsi con quella dell’ “idealista” e del “sognatore romantico”, all’interno di una società che è ancora sostanzialmente pre-industriale o agli albori dell’industrializzazione. L’immagine tende in parte a modificarsi nel secondo dopoguerra. Il teen-ager diventa il destinatario privilegiato del consumismo di massa. È a lui che si indirizza in gran parte la “persuasione occulta” dei messaggi pubblicitari. Le città italiane, ad esempio, sono piene di manifesti che riproducono immagini di ragazze sorridenti che montano Vespe e Lambrette, o che gustano un gelato Alemagna. Negli anni del boom economico, a partire dagli USA, si manifesta però, a livello giovanile, anche una crisi di rigetto nei confronti del feticcio consumista. Se ne fanno interpreti, inizialmente, la grande letteratura, il cinema, la canzone. Dai testi della Beat Generation ai “ribelli” inquieti alla James Dean (Gioventù bruciata) o al giovane Ben (Dustin Hoffman) de Il laureato. Dalle canzoni di protesta di Bob Dylan e Joan Baez a quelle intimiste e “sofferte” di Gino Paoli, Luigi Tenco, Fabrizio De Andrè. Si fa strada quella “meglio gioventù” che, dalla metà degli anni ’60 insorgerà contro la guerra, il razzismo, l’imperialismo. Tra gli anni ’60 e i ’70 dunque, pur in un contesto profondamente mutato rispetto a quello di anteguerra, persiste nei giovani una grande volontà di cambiamento. L’esaurimento della spinta sessantottina determinerà tuttavia il rapido affievolirsi di tale volontà. Solo in minima parte ribadita dai movimenti dei decenni successivi (da quello del ’77 alla “Pantera”, fino a quelli pacifisti e no global dei primi anni ’90). Si profila una diversa immagine delle nuove generazioni. Non più avverse (salvo sparute minoranze) al consumismo, ma profondamente immerse in esso e nella sua ideologia. Il John Travolta de La febbre del sabato sera incarna alla perfezione il nuovo modello. Mentre un’altra parte del mondo giovanile, quella degli “sconfitti”, rifluisce nella droga o nel terrorismo.
    
La svolta tecnologica dell’ultimo quarto del secolo scorso provoca ulteriori mutamenti. Il nuovo “archetipo” giovanile coincide con quello di coloro che, essendo venuti al mondo nell’era digitale, ignorano completamente tutte le forme precedenti di vita e di relazioni sociali. Si tratta della cosiddetta generazione digitale 2.0. A differenza della precedente (1.0), essa non si riconosce nel modello comunicativo dominante nel XX secolo. Quello che prevedeva l’utilizzo delle nuove tecnologie, in particolare di internet, quasi esclusivamente come strumento di consumo e fruizione di informazioni per lo più prodotte da altri. Adesso, grazie ai nuovi strumenti informatici, si tende a superare la separazione istituzionale tra l’emittente e il ricevente e a produrre un nuovo tipo di cultura, in cui l’individuo assume una posizione partecipativa e costruttiva all’interno del flusso comunicativo. Attraverso i social si tende spesso, inoltre, ad assumere una seconda identità, continuamente sottoposta all’approvazione (like) degli altri. Assume sempre più significato l’affermazione “social è il modo in cui esistiamo”. Una sorta di rivisitazione del cogito cartesiano (digito ergo sum). Il tutto è accompagnato dall’esplosione di una vera e propria “bulimia” del sapere. Una “cultura del troppo”, che appare in perfetta sintonia con le logiche di una società iper-consumistica, e che si manifesta nella tendenza compulsiva ad acquisire la maggiore quantità possibile di nozioni su qualsiasi argomento. Anche quando non risultano di alcuna utilità. E, come sempre, la quantità va a discapito della qualità. Vale a dire che l’utente sprovveduto non è spesso in grado di separare il “buon grano” dalla “zizzania”, in un mondo che si avvia ad essere sempre più quello della “post-verità”. Nel quale guizza come un pesce nell’acqua l’“imbecille” di cui efficacemente dissertava Umberto Eco. Ovvero la massa di «coloro che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività» e che venivano subito messi a tacere, mentre ora «hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel». Sono i guasti della “società dell’apparire”. Una società che aborrisce il silenzio e la riflessione, preferendo ad essi l’insopportabile rumore mediatico. Non c’è da meravigliarsi che, in una società siffatta, la solitudine venga individuata come il nemico da combattere strenuamente. Si tende a esorcizzare la possibilità che gli altri non ci cerchino e non ci considerino. E ovviamente la ricerca morbosa del rapporto con l’altro avviene il più delle volte a scapito della qualità di tale rapporto. Le pagine dei social tendono il più delle volte a riempirsi di banalità, semplificazioni e chiacchiere inutili. Conforta, in tale contesto, sapere che comunque, in Italia, il 72%/ dei ragazzi si dice orgoglioso di essere quello che è e non teme di esprimere se stesso. In altri termini, risulta indifferente alla reputazione che ne hanno gli altri nel web. Ancora più confortante è quell’81% che “difende la genuinità e non vuole far finta di essere qualcosa che non è”. Esattamente l’opposto dello stereotipo imposto dalla “società dell’immagine”. I pericoli maggiori della rete sono tuttavia costituiti dal dilagare dell’odio on line e dal “cyber bullismo”. La pusillanimità e la vigliaccheria di tanti trovano una comoda copertura nell’anonimato garantito dal web. Chi ne fa le spese sono soprattutto gli elementi più fragili. Ragazzi spesso colpiti e messi alla berlina per le proprie caratteristiche fisiche, il colore della propria pelle o il proprio orientamento sessuale. In tal caso è solo lievemente rassicurante constatare che in Italia la media dei ragazzi che “trovano ispirazione nelle persone capaci di liberarsi da quelle che ritengono distinzioni obsolete di genere, razza, religione e popolazione” è leggermente superiore alla media globale. Fa pensare invece quell’esiguo 65% di ragazzi italiani che afferma di “rispettare le persone che prendono posizione in favore degli altri”. Ben al di sotto della media globale (84%). Tale dato può costituire un sintomo inquietante di una crescente “indifferenza” nei confronti del prossimo. Di un sostanziale “disimpegno” nei confronti dei problemi sociali. In sostanziale contro-tendenza rispetto alle storie personali dei genitori e dei fratelli maggiori. Il rischio è dunque quello di nuove generazioni sempre più “concrete” e “tecnologiche”. Ma che abbandonano pressoché definitivamente non solo l’utopia della “fantasia al potere” ma anche qualsiasi progetto di cambiamento della realtà in senso democratico e ugualitario.

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