La parte "poetica" dei miti lascia spesso in ombra realtà repressive e crudeli. I casi del "Che" e della rivoluzione d'ottobre.
Cinquant’anni fa (9 ottobre 1967), a La Higuera, nella Sierra boliviana, dopo essere stato ferito e catturato da un reparto anti-guerriglia dell'esercito di quel Paese, assistito da forze speciali statunitensi, moriva Ernesto “Che” Guevara. Esattamente mezzo secolo prima (tra il 7 e l’8 novembre 1917), i bolscevichi russi, guidati da Lenin e Trotskij, avevano dato il via ai “dieci giorni che sconvolsero il mondo” (John Reed), con l’assalto al Palazzo d’Inverno di Pietrogrado e con l’instaurazione del potere sovietico. Entrambi gli eventi erano destinati ad alimentare una più o meno solida e duratura mitologia. Pur essendo molto diversi tra loro.
Nel primo caso ci troviamo di fronte a un eroe sconfitto. Indubbiamente “senza paura”. Non proprio “senza macchia”. Che va incontro alla morte in nome della lotta all’oppressione che strangola in quegli anni gran parte dell’America Latina. Le sue parole d’ordine (Hasta la victoria siempre, Creare due, tre…, molti Vietnam), la sua bellezza fisica, la sua fermezza guerrigliera non disgiunta dalla “tenerezza”, contribuiranno ad alimentare un mito destinato a sopravvivere persino alla caduta del comunismo. Mario Capanna, nel suo Formidabili quegli anni (1988), ricorda con commozione come, nel momento in cui si sparse la notizia della morte di Guevara, i muri delle fabbriche, delle scuole, dei quartieri, in particolare in Italia, si riempirono di quell’enigmatico (per molti) nomignolo: “Che”. Nei mesi e negli anni successivi proliferarono le immagini (poster, fotografie, t-shirt…) del guerrigliero argentino. Presenti immancabilmente nei cortei studenteschi e antimperialisti degli anni ’60-’70. Altrettanto cospicua fu la produzione di film e canzoni. Tra tutte la struggente Aprendimos a quererte di Carlos Puebla. Ma anche i bellissimi testi dedicati al Che da Francesco Guccini e Roberto Vecchioni. Purtroppo, come accade per la quasi totalità dei miti, resterà a lungo in ombra la parte meno “poetica” e più “prosaica” di Guevara. Quella a cui lo condannava il suo ruolo di convinto interprete di un’ideologia che, sacrificando l’ “uguaglianza formale”, borghese, a quella “sostanziale”, proletaria e marxista, lo portò ad adottare provvedimenti repressivi. Non solo nei confronti di colpevoli controrivoluzionari ma anche di persone innocenti. Valga per tutte la scelta di “rieducare” i gay alla “morale rivoluzionaria” rinchiudendoli in appositi campi di concentramento. Scelta che lo stesso Fidel Castro giudicherà tardivamente “crudele” nel 2010. In sostanza, nonostante il suo atteggiamento “libertario” e persino critico nei confronti del “comunismo reale”, anche il Che non si discostò molto dai suoi sistemi. Sia pure senza mai raggiungere il livello di brutalità degli Stalin, dei Mao, dei Pol Pot.
Il mito della rivoluzione d’ottobre ha invece conosciuto un’altra storia. Ben presto quella che nasce come una rivoluzione si trasforma rapidamente in colpo di Stato. Già alla fine di novembre del 1917, Lenin non esita a sciogliere d’imperio l’Assemblea Costituente. Dal momento che la maggioranza di essa, scaturita dalle elezioni, non è costituita dai bolscevichi ma dai social-rivoluzionari. Da quel momento ha inizio l’involuzione totalitaria del sistema sovietico. L’introduzione della Polizia Politica (la Ceka) e dei campi di concentramento (i famigerati gulag) precedono dunque l’avvento di Stalin. Ciononostante il mito dell’ottobre russo e dell’Unione Sovietica sopravviverà a lungo, anche nei duri anni delle purghe staliniane. Alimentato dalla vittoria dell’Armata Rossa sui nazifascisti nella Seconda Guerra Mondiale. Persino i fatti d’Ungheria del 1956 non riusciranno a cancellarlo dalla mente e dal cuore di milioni di militanti comunisti in tutto il mondo. Alcune frange estremiste (i cosiddetti gruppi marxisti-leninisti, ma anche, in Italia, il Movimento Studentesco di Capanna) lo declineranno in espliciti termini stalinisti e maoisti. Contrapponendo l’ortodossia dei due dittatori al “revisionismo” krusceviano. Ma anche il “socialdemocratico” PCI, pur avendo abbandonato qualsiasi velleità rivoluzionaria, conserverà nelle sue sezioni e federazioni le icone di Lenin. Bisognerà attendere il 1982 perché Enrico Berlinguer affermi ufficialmente che la “spinta propulsiva” della rivoluzione d’ottobre poteva ormai considerarsi esaurita. Forse però era troppo tardi. Il crollo del sistema sovietico alla fine degli anni ’80 trascinerà con sé anche i simboli dell’ “eurocomunismo” e i generosi sforzi di separare le giuste lotte per l’uguaglianza sociale dal totalitarismo del “comunismo reale”.
Oggi altri miti impazzano. Per lo più di segno opposto rispetto a quelli comunisti. Dopo l’ubriacatura consumista e ultra-liberista degli anni ’80-’90, tornano inquietanti le spinte nazionaliste e xenofobe. Quando non apertamente razziste. Per non parlare dell’estremo egoismo legato all’esaltazione delle “piccole patrie”. Mentre sempre più difficoltosi si rivelano gli sforzi di chi tenta di ragionare ancora sulla complessità dei problemi e sulla fatica dell’arte della mediazione. Purtroppo inficiati dalla scarsa credibilità politica e morale di chi spesso se ne fa sostenitore. Con il rischio di alimentare ulteriormente le mitologie. Che puntualmente promettono paradisi e realizzano inferni.