Le atmosfere drammatiche dell’Italia degli anni di piombo, della dignità difesa e della capacità di resistenza nelle canzoni di Lucio Dalla e Francesco De Gregori. Tra riflessioni private e valore politico.
L’atmosfera cupa che circonda l’Italia dopo il rapimento di Aldo Moro, quando sparisce la vita notturna nelle grandi città, militarizzate per combattere il terrorismo, è ben messa in evidenza nella canzone L’anno che verrà (1979) di Lucio Dalla. In una lettera a un amico lontano, nella quale si affrontano vari temi (l’incapacità di comunicare, il desiderio di una vita libera, la necessità di continuare a coltivare la speranza), le riflessioni private acquistano anche un significato politico, che traspare dalla partecipazione alle angosce collettive. Il testo, pur privo di qualsiasi connotazione ideologica, interpreta la rabbia e la delusione di una generazione che aveva creduto nell’utopia di una rigenerazione universale. L’immagine drammatica di una città immersa nel coprifuoco (“si esce poco la sera”), rafforzata da quella dei “sacchi di sabbia vicino alla finestra”, sembra trovare il suo contrappeso ironico nei sogni e nelle utopie spacciati dalla televisione. Ma, di fronte all’amara convinzione che, in realtà, nulla cambierà, il cantautore emiliano invita a rifiutare la deriva della droga, imboccata da numerosi giovani disperati, e a cercare invece rifugio nell’amicizia, probabilmente il valore più alto dell’esistenza umana, che permette di condividere con l’altro speranze e angosce.
Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’
e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò.
Da quando sei partito c’è una grossa novità,
l’anno vecchio è finito ormai
ma qualcosa ancora qui non va.
Si esce poco la sera compreso quando è festa
e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra,
e si sta senza parlare per intere settimane,
e a quelli che hanno niente da dire
del tempo ne rimane.
Ma la televisione ha detto che il nuovo anno
porterà una trasformazione
e tutti quanti stiamo già aspettando.
Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno,
ogni Cristo scenderà dalla croce
anche gli uccelli faranno ritorno.
Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno,
anche i muti potranno parlare
mentre i sordi già lo fanno.
E si farà l’amore ognuno come gli va,
anche i preti potranno sposarsi
ma soltanto a una certa età,
e senza grandi disturbi qualcuno sparirà,
saranno forse i troppo furbi
e i cretini di ogni età.
Vedi caro amico cosa ti scrivo e ti dico
e come sono contento
di essere qui in questo momento,
vedi, vedi, vedi, vedi,
vedi caro amico cosa si deve inventare
per poter riderci sopra,
per continuare a sperare.
E se quest’anno poi passasse in un istante,
vedi amico mio
come diventa importante
che in questo istante ci sia anch’io.
L’anno che sta arrivando tra un anno passerà
io mi sto preparando è questa la novità.
La volontà di resistere al degrado che investe la società italiana di fine anni Settanta si ritrova anche nella canzone Viva l’Italia di Francesco De Gregori, anch’essa del 1979. Uscita in un momento in cui il paese attraversa una fase di crisi politica e istituzionale (dimissioni di Leone, sostituito da Sandro Pertini; terrorismo e delitto Moro), la canzone ripercorre alcuni momenti della nostra storia nazionale, dalla Liberazione in poi: il boom economico, il sacco edilizio (il “cemento”), la corruzione politica (“l’Italia derubata”), le stragi. Al contrario di alcune interpretazioni polemiche, il titolo della canzone non è ironico, ma vuole mettere a fuoco la dignità di una nazione calpestata da certa classe politica. La canzone di De Gregori ha subito anche strumentalizzazioni politiche (prontamente stigmatizzate dall’autore), in particolare da parte di alcuni partiti (il PSI e il MSI) che, travisando il suo significato, la utilizzeranno disinvoltamente, nei loro congressi, o come spot nelle loro campagne elettorali. Per non parlare di quei versi della canzone che potranno essere interpretati in polemica con la Lega di Bossi (“l’Italia tutta intera”) o con Berlusconi (“l’Italia che resiste”). Fondamentale è, invece, in essa il riferimento all’ “Italia del 12 dicembre” (ovviamente del 1969), che allude esplicitamente alla capacità di resistenza che il paese ha saputo dimostrare a partire dalla strategia della tensione, inaugurata con la strage di Piazza Fontana.
Viva l’Italia, l’Italia liberata,
l’Italia del valzer, l’Italia del caffè
l’Italia derubata e colpita al cuore,
viva l’Italia, l’Italia che non muore.
Viva l’Italia, presa a tradimento,
l’Italia assassinata dai giornali e dal cemento,
l’Italia con gli occhi asciutti nella notte scura,
viva l’Italia, l’Italia che non ha paura.
Viva l’Italia, l’Italia che è in mezzo al mare,
l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare,
l’Italia metà giardino e metà galera,
viva l’Italia, l’Italia tutta intera.
Viva l’Italia, l’Italia che lavora,
l’Italia che si dispera, l’Italia che si innamora,
l’Italia metà dovere e metà fortuna,
viva l’Italia, l’Italia sulla luna.
Viva l’Italia, l’Italia del 12 dicembre,
l’Italia con le bandiere, l’Italia nuda come sempre,
l’Italia con gli occhi aperti nella notte triste,
viva l’Italia, l’Italia che resiste.
Agli anni di piombo, e al terrorismo delle Brigate Rosse, è dedicata anche Scacchi e tarocchi, una canzone composta dallo stesso De Gregori nel 1985, e inserita nell’omonimo album. In essa, la spietatezza e l’omertà dei brigatisti appare in efficace contrasto con la loro “normalità” (“avevano…moglie e figli”), ma il fenomeno del terrorismo, pur sconfitto, non è stato ancora chiarito, al punto che il cantautore definisce la sua canzone “un cruciverba destinato a solutori più che abili”. Egli sembra però convinto, in un’intervista dello stesso anno, che di “quel terrorismo che ci ha costretto a stare chiusi in casa, che assoldava manovalanza nelle frange più disperate della città”, che “è passato sulla nostra pelle” sia giusto parlare.
Venivano da lontano, avevano occhi e cani,
avevano stellette, e paura.
Erano tre, erano quattro, erano più di ventiquattro,
erano il sale della terra.
Erano il fuoco e la guerra, erano il segno della croce,
erano cani senza voce, erano denti.
Erano denti senza bocca, erano fuoco che scotta,
erano la vita che rintocca.
Erano tre, erano quattro, avevano sassi, avevano cuori.
Avevano parrucche e occhiali, e pistole a tamburi e silenziatori.
Avevano linguaggio e chitarre
e da dietro le sbarre ridevano e pure parlavano.
Avevano alcuni moglie
e figli che da dietro un vetro adesso li salutavano.
Avevano certo dei mandanti ed erano tanti,
senza né viso né nome e senza prove.
Alcuni sapevano tutto e tutto ricordavano,
e andavano, ma non dicevano dove.
Altri giuravano e spergiuravano
e tutto confessavano, nome e cognome.
Tutti sapevano tutto di tutti, perfino il numero,
ma non dicevano come.
Venivano da lontano, avevano occhi e cani,
avevano stellette e guanti, e paura.
Erano tre, erano quattro, erano più di ventiquattro,
erano dieci, o diecimila.
Erano bocca e occhi, scacchi e tarocchi,
erano occhi e brace.
Erano giovani e forti, erano giovani
vite, dentro una fornace.