11 settembre 1973. Sono passati quarantacinque anni. Quel giorno eravamo nello storico quartiere della Civitella, a Chieti. Si preparava la Festa de L’Unità. La prima dopo parecchi anni. Lì ci raggiunse, come un fulmine a ciel sereno, la notizia del colpo di Stato in Cile. Il generale “gaglioffo” Augusto Pinochet aveva estromesso con la violenza il governo di Unidad Popular, guidato dal socialista Salvador Allende. Un governo scaturito, tre anni prima, da un’elezione democratica, e che comprendeva anche i comunisti e altre forze della sinistra cilena.
Rimanemmo basiti. Certo, l’idea che gli Stati Uniti e la CIA non si sarebbero facilmente rassegnati ad avere una seconda Cuba nel continente, e che avrebbero reso difficile la vita del nuovo governo, era nell’aria. Tale consapevolezza tuttavia non attenuò minimamente la rabbia e la frustrazione che ci colpirono all’arrivo della notizia del golpe. Rabbia e frustrazione che aumentarono, poche ore dopo. Quando apprendemmo della morte di Allende, eroicamente caduto nella disperata difesa del Palazzo presidenziale della Moneda.
Un governo che godeva del consenso della maggioranza del popolo (ma che vedeva anche l’opposizione di una parte consistente del Paese) veniva rovesciato con la forza delle armi. Perché? Non era difficile individuare le risposte. Allende stava mettendo in pratica ciò che aveva promesso. Dalla nazionalizzazione delle industrie del rame (principale ricchezza del Cile, fino ad allora nelle mani della aziende statunitensi Kennecott e Anaconda) alla garanzia di mezzo litro di latte al giorno ai bambini, in un Paese i cui livelli di indigenza erano molto alti. Per non parlare dell’introduzione del divorzio e del taglio dei finanziamenti alle scuole private. Provvedimenti particolarmente invisi ai vertici della Chiesa cattolica.
La repressione che seguì al colpo di Stato fu ferocissima. Difficile dimenticare le immagini dello stadio di Santiago pieno dei cadaveri allineati degli oppositori (in gran parte giovani) di Pinochet e dei suoi accoliti. Grande fu l’emozione destata dall’evento. Immense manifestazioni di protesta sconvolsero le principali capitali del mondo. Da quel momento le bandiere del Cile libero divennero una presenza costante nei cortei della sinistra. In particolare in Italia, dove si trovava fortunosamente al momento del golpe, il celebre gruppo musicale degli Inti Illimani, amatissimi interpreti del meglio della musica andina, contribuiranno per anni, con le loro immortali Venceremos e El pueblo unido jamas serà vencido, a mantenere viva la tensione antifascista contro gli autori del colpo di Stato. Purtroppo però bisognerà attendere ben diciassette anni perché la democrazia potesse tornare in Cile.
I fatti cileni, inoltre, provocarono accese discussioni nella sinistra mondiale. Accanto alle posizioni di chi rinnovava la propria sfiducia nella possibilità di arrivare democraticamente al socialismo, vi fu anche chi, come Enrico Berlinguer, arrivò a conclusioni diverse. Partendo dalla considerazione che la sconfitta di Allende era stata determinata (oltre che, ovviamente, dall’intervento della CIA) dalla risicata maggioranza di cui il governo di Unidad Popular disponeva, Berlinguer affermò categoricamente che in Italia una conquista pacifica del potere da parte delle sinistre avrebbe potuto realizzarsi solo creando una grande maggioranza di popolo (ben al di là della soglia del 51%) a favore di una politica riformatrice. Di qui la proposta del “compromesso storico”, rivolta alle tre grandi forze popolari allora presenti nel nostro Paese: quella comunista, quella socialista e quella cattolica. Una linea politica che, nonostante la presenza di malumori nella base del PCI (non proprio convinta di una possibilità di dialogo con la DC), assicurò al partito di Berlinguer cospicui successi elettorali negli anni 1974-76. Successivamente la politica italiana avrebbe imboccato altre direzioni. Ma è un’altra storia.