di ROBERTO LEOMBRONI
21 agosto 1968. È trascorso mezzo secolo. Mentre il mondo occidentale è sconvolto dalla protesta antimperialista e dalla contestazione studentesca, i carri armati del Patto di Varsavia stroncano il tentativo di costruire un “socialismo dal volto umano” in Cecoslovacchia. È la fine della “Primavera di Praga”.
La Cecoslovacchia, a metà degli anni ’60, si presentava come uno dei Paesi del blocco orientale più evoluti dal punto di vista economico e più vivaci da quello culturale. Nella capitale boema, il 14 dicembre 1967, il Comitato Centrale del Partito Comunista Cecoslovacco aveva nominato segretario Alexander Dubcek al posto del conservatore Antonin Novotny. Un altro riformatore, Ludvik Svoboda, era stato eletto il 30 marzo alla presidenza della repubblica. Dubcek si riprometteva di operare una radicale riforma del sistema socialista. Allo scopo di garantire una maggiore giustizia sociale. Ma anche più diritti individuali. Veniva promossa la partecipazione operaia nelle fabbriche contro il potere burocratico. Si intendeva garantire libertà di parola, di pensiero, di manifestazione. Il tentativo era quello di rendere compatibili socialismo e libertà “borghesi”. Il 25 giugno venne promulgata una legge che riabilitava coloro che in precedenza erano stati ingiustamente torturati, arrestati o uccisi dal regime. Ma il culmine del processo riformatore si era avuto due giorni dopo. Con la pubblicazione dell’appello delle “Duemila parole” da parte di un nutrito gruppo di intellettuali e giornalisti. Contemporaneamente la Cecoslovacchia conosceva una salutare ventata di rinnovamento. Non solo nella politica. Ma anche nel pluralismo dell’informazione, nel teatro, nella letteratura… Non a caso le vicende della Primavera di Praga ispireranno gli scritti di Milan Kundera e la musica di Francesco Guccini.
Nel frattempo però, sin dal 9 maggio, erano iniziate manovre militari sovietiche ai confini della Cecoslovacchia. Culminate nell’invasione del 21 agosto. Le foto e i video di quei giorni ci restituiscono immagini di cittadini increduli, in Piazza San Venceslao, di fronte ai carri armati. E di giovani che tentano invano di dialogare con i carristi russi e degli altri Paesi del Patto di Varsavia. A loro volta “spiazzati” dalla presunta necessità di intervenire per impedire un’inesistente cancellazione del socialismo in Cecoslovacchia. Il congresso clandestino del PCC rielesse Dubcek segretario, ma l’esperimento riformatore poteva ormai ritenersi definitivamente concluso. L’ “ordine” tornava a “regnare” a Praga. Pochi giorni dopo, il 26 settembre, il quotidiano ufficiale del Partito Comunista sovietico, enuncerà la teoria della “sovranità limitata” dei paesi aderenti al Patto.
Dodici anni dopo la repressione dei moti di Budapest, l’invasione di Praga assestò un ulteriore duro colpo al movimento comunista internazionale e all’immagine dell’URSS come Stato-guida del socialismo mondiale. Alcuni partiti comunisti occidentali, a differenza di quanto accaduto nel 1956, presero le distanze dall’intervento sovietico. Tra essi, il PCI, allora guidato da Luigi Longo, espresse “dissenso” e “riprovazione”. Pur non arrivando a porre in discussione i legami di “fratellanza” che continuavano a legarlo all’URSS e ai Paesi del “socialismo reale”. I movimenti di contestazione, nati alla sinistra del PCI, dal canto loro, ne trassero ulteriore motivo per allargare la propria distanza dalle posizioni della sinistra “ufficiale”. È in tale contesto che maturerà, ad esempio, il successivo distacco dal PCI del gruppo del “Manifesto”. Anche se la protesta contro l’invasione sovietica non raggiunse mai i livelli di quella contro la guerra americana nel Vietnam. Ciò costituì un indubbio elemento di debolezza nello schieramento anti-capitalistico e anti-imperialistico. L’ambiguità della sinistra comunista (non solo italiana) nei confronti del “socialismo reale” (nonostante il lodevole “strappo” berlingueriano del 1982) la troverà impreparata di fronte al crollo del 1989. Con le lacerazioni e le rotture che ne seguiranno. Proprio quando, al contrario, con la “rivoluzione di velluto” del 1992, le maggiori figure della Primavera praghese (da Dubcek al poeta e drammaturgo Vàclav Havel) conosceranno la loro riabilitazione. Per la Cecoslovacchia si aprirà una nuova fase di sviluppo democratico. Non compromessa dalla separazione (sancita il 1° gennaio 1993) tra Repubblica Ceca e Slovacchia.
Ovviamente la storia della Cecoslovacchia comunista, in particolare dopo l’invasione sovietica, è anche storia di emigrazione. Furono diverse migliaia i cittadini cecoslovacchi che lasciarono il proprio Paese. Molti di loro furono accolti in Svizzera. È auspicabile che tale ricordo resti indelebile in due Paesi (la Repubblica Ceca e la Slovacchia, appunto) che, in sintonia con i loro alleati del “Gruppo di Visegrad”, stanno facendo a gara per innalzare muri nei confronti di chi fugge dalle guerre e dalle dittature.