La centralissima Piazza delle Tre Culture, nel quartiere di Tlatelolco (è il suo nome in lingua nahua), a Città del Messico, è così denominata perché vi si trovano rilevanti resti delle tre culture messicane (quella maya, quella spagnola e quella messicana moderna). Il pomeriggio del 2 ottobre 1968, cinquant’anni fa, alla vigilia delle Olimpiadi, che stanno per celebrarsi in Messico, essa diventa il teatro di uno dei più efferati massacri perpetrati nella seconda metà del XX secolo. La polizia spara, uccidendo un numero imprecisato di giovani del movimento studentesco (si parla di circa trecento) che protestano contro la miseria e l’autoritarismo del regime. La strage, nel corso della quale muoiono anche bambini e passanti, è innescata da un vero e proprio agguato, accuratamente preparato e compiuto dalla polizia e dall’esercito, ai danni di una manifestazione assolutamente pacifica. Appena un anno è trascorso dall’uccisione di Che Guevara (8 ottobre 1967). Evento che aveva contribuito a diffondere il suo mito in tutto il mondo. E nel corso del nuovo anno, dopo il Maggio francese e l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, l’eccidio messicano costituisce il terzo grande avvenimento che contribuisce a turbare l'opinione pubblica mondiale. Tra le tante proteste studentesche che infiammano il mondo nel ‘68, essa si chiude con l’esito più tragico. E le Olimpiadi, alla vigilia della loro inaugurazione (12 ottobre), sono insanguinate dall’eccidio di giovani innocenti.
La rivolta studentesca nella capitale era iniziata il 28 luglio, ed era stata repressa dalla polizia attraverso l’uso di bazooka e carri armati. Il 21 settembre erano divampati nuovi scontri, culminati nell’arresto di 736 persone. Il 30 settembre era stata occupata l'Università di Vera Cruz. Il massacro del 2 ottobre rappresenta, dunque, l’atto conclusivo di una serie di brutali provvedimenti adottati dal governo allo scopo di reprimere le agitazioni di massa che hanno coinvolto, accanto agli studenti, svariate categorie di lavoratori, dagli insegnanti ai ferrovieri. Leggi liberticide hanno vietato gli scioperi e le altre forme di espressione del dissenso. Si è altresì fatto ricorso all’assassinio e all’arresto arbitrario degli oppositori. Il segretario del sindacato dei ferrovieri, Demetrio Vallejo e il dirigente comunista Valentin Campa sono stati rinchiusi in carcere per anni senza un regolare processo. Di qui la decisa e matura iniziativa degli studenti, i cui punti di forza sono nell’Università Nazionale e nell’Istituto Politecnico. I giovani hanno occupato scuole e promosso grandi manifestazioni di massa, chiedendo la liberazione dei prigionieri politici e il ritiro delle misure repressive. Richieste che hanno guadagnato loro la crescente solidarietà di diverse categorie di lavoratori. Il presidente Díaz Ordaz e il ministro degli interni Luis Echeverría hanno tuttavia rifiutato qualsiasi forma di dialogo, rispondendo con gli omicidi e con l’invio dell’esercito nelle Università. Non sono però riusciti a fiaccare il movimento, tuttora vigoroso alla vigilia della strage.
L’eccidio di Piazza delle Tre Culture provocherà profonda emozione e manifestazioni di protesta in tutto il mondo. Sarà drammaticamente rievocato, tra l’altro, in una canzone della cantautrice Judith Reyes, Tragedia de la plaza de las tres culturas, composta nel 1969, nella quale comparirà anche il nome di Oriana Fallaci. La famosa scrittrice e giornalista italiana molto impegnata, in quegli anni, nella difesa delle libertà democratiche in tutto il mondo, e che sarà ferita gravemente da una raffica di mitra nel corso degli scontri. La Fallaci descriverà in un libro la bestiale ferocia di un massacro destinato a protrarsi per ben cinque ore. Una carneficina che lascia allibiti. E che dovrebbe costituire motivo di riflessione autocritica per tutti quelli che, in quei mesi, parlano a vanvera di “violenza” dei movimenti di contestazione. Tanto più se si riflette sul fatto che detta carneficina è motivata in gran parte dalla volontà di non pregiudicare, a causa della protesta giovanile, la “rispettabilità” della capitale messicana nell’ospitare l’evento sportivo. Il potere, in altri termini, vuole fornire al mondo, attraverso i Giochi olimpici, l’immagine rassicurante di un paese moderno. A tale proposito, il giornalista dell'Espresso Carlo Gregoretti, arrivato qualche giorno dopo sul luogo della strage, paragonerà efficacemente il comportamento delle autorità messicane a quello di un ospite che, per garantirsi la buona riuscita di una festa, invece di mandare a letto i bambini, li ammazza.
Stranamente, nonostante l’estrema crudeltà dell’eccidio, la sua risonanza mediatica globale, negli anni successivi, rimarrà alquanto modesta. E non acquisterà un significato simbolico pari a quelli del Maggio francese o della Primavera di Praga. Esso rimarrà confinato in quella che il poeta Octavio Paz definirà, in un suo libro, “solitudine messicana”. Ben poco arriverà in Europa della mole di riflessioni che esso ha suscitato in Messico, rivelata da un’imponente proliferazione di saggi, opere di documentazione storica, reportage, racconti, poesie, film. Vale la pena citare, ad esempio il libro La noche de Tlatelolco (1971) della scrittrice Elena Poniatowska, una delle massime figure del giornalismo messicano, che ci restituisce un vasto e approfondito resoconto del massacro, attraverso le testimonianze di numerose persone coinvolte nel tragico evento (studenti, insegnanti, commercianti, poliziotti, intellettuali…).
È interessante rilevare come la contestazione latino-americana, nella quale si collocano i fatti di Città del Messico, sia affiancata, in questi anni, da notevoli fermenti culturali e religiosi. Tra essi il Cinema-Nôvo brasiliano e la “teologia della liberazione”. Quest’ultimo movimento era nato dall’iniziativa di sacerdoti e gruppi di cattolici in lotta contro le dittature militari e oligarchiche che opprimono il Sud-America, impegnati nel tentativo di conciliare la fede cristiana con il marxismo. Una sua versione radicale, la “teologia della rivoluzione”, elaborata dal sacerdote guerrigliero colombiano Camilo Torres, si era sviluppata, tra il 1965 e il 1968, in un ambiente storico, politico e culturale caratterizzato dalla crescita di un movimento rivoluzionario e anti-imperialista. Le sue idee trovano espressione nei documenti dell’Assemblea dei vescovi latino-americani tenutasi a Medellin (Colombia) nel 1968. Pur ufficialmente condannate dalla Chiesa, esse sono destinate a esercitare a lungo una notevole influenza su parte del clero latino-americano.
Una breve nota di storia locale. L’emozione e la protesta per i fatti di Città del Messico sono forti anche a Chieti, la mia città. Immediatamente dopo la strage, un nutrito gruppo di studenti teatini, impegnati a sinistra, si schiera con un volantino di dura condanna, che accomuna il comportamento della polizia e dell’esercito messicani alle responsabilità dell’imperialismo americano. Il giorno dopo, centinaia di persone, per lo più studenti, dopo un comizio in Piazza G. B. Vico, sfilano per le vie della città protestando contro il massacro. Il contenuto della manifestazione non riguarda in realtà soltanto i fatti messicani. Gli slogan che la caratterizzano le conferiscono i caratteri inequivocabili della “contestazione globale”: i riferimenti sono alla guerra nel Vietnam, al Potere Studentesco, alla lotta contro la scuola di classe, alla Cina di Mao, a Che Guevara, al Black Power... Si può ben dire che il Sessantotto è finalmente arrivato a Chieti, anche se il 1968 ormai è agli sgoccioli.