Settant’anni fa, nel dicembre del 1947, stava per vedere la luce la nostra Costituzione repubblicana. Tassello fondamentale della restaurata democrazia. Si era nel vivo di un processo racchiuso tra due limiti cronologici ben precisi. Il primo identificabile con la Resistenza e la guerra di liberazione (conclusa il 25 aprile 1945). Il secondo con la "restaurazione conservatrice" ("centrista"), seguita al viaggio di De Gasperi in America, nel gennaio del '47. Con la conseguente espulsione di comunisti e socialisti dal governo del CLN. Ulteriormente suggellata, il 18 aprile 1948, dal risultato delle prime vere elezioni politiche del dopoguerra (quelle del 1946 erano limitate all'elezione dell'Assemblea costituente). Che vede una travolgente vittoria del blocco di centro, guidato dalla DC, e la pesante sconfitta del Fronte Popolare, nato dall'alleanza tra PCI e PSI.
Tale collocazione cronologica spiega il clima particolare che si respira in Italia in quei giorni. Esso traspare dal vivace dibattito tra i partiti, i sindacati e le forze imprenditoriali all'interno della Costituente. Ma anche dalla letteratura neorealista e dal grande cinema di Rossellini, De Sica, Visconti, Zavattini, De Santis… Che ci restituisce soprattutto immagini di miseria, fame, disoccupazione. Ma anche le delusioni di chi aveva sperato in un'Italia migliore.
Gli anni tra il '45 e il '48 si presentano dunque come una sorta di Giano bifronte. Da una parte sono ancora vive le speranze e le attese sollevate dalla Resistenza. In particolare quelle in una maggiore giustizia sociale e nel riconoscimento della funzione essenziale delle forze del lavoro. Dall'altra agiscono, in senso contrario, le forze della conservazione e della reazione. Che premono per tornare al più presto a una condizione simile a quella dell'Italia pre-fascista. Conservando il potere e i privilegi di quei gruppi sociali (industriali e agrari innanzitutto) che avevano appoggiato il fascismo.
In tale contesto matura la progressiva svolta a destra dei governi post-bellici. Dopo la caduta del governo Parri, i successivi governi De Gasperi, pur con la presenza dei comunisti e dei socialisti, incontreranno crescenti difficoltà a trovare una sintesi tra le diverse proposte politiche. Ciononostante, nei mesi che vanno dal giugno '46 al dicembre '47, nel vivo dell'accesa dialettica tra le forze politiche, vede la luce la nostra Costituzione repubblicana. Una delle più avanzate nel mondo. Una sorta di "miracolo", che riuscirà a operare una perfetta fusione tra ispirazioni politiche e culturali diverse e talvolta opposte.
Un miracolo reso possibile soprattutto dalla condotta dei protagonisti politici che hanno lavorato alla sua stesura. A partire dai due maggiori partiti di massa del dopoguerra: la DC e il PCI (nonostante alle elezioni della Costituente quest'ultimo sia superato, sia pure di poco, dal PSIUP). Merito comune ai due grandi leader Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti è quello di aver assolto al difficile compito di "traghettare" (per dirla con Pietro Scoppola) verso l'accettazione della democrazia masse e organizzazioni potenzialmente "eversive" o comunque riluttanti ad accettare il metodo democratico.
Ciononostante, sin dalle origini della nostra Repubblica, sono presenti tare e distorsioni che spiegano le numerose anomalie del nostro sistema politico-sociale. E che spesso ci inducono a mettere in dubbio la "normalità" della nostra democrazia. E a parlare di una sua "incompiutezza", rispetto a quella di altri paesi occidentali. Non è un mistero infatti che i due grandi partiti di massa hanno evidenziato limiti di fondo che hanno bloccato in seguito il libero sviluppo di tutte le potenzialità di un sistema democratico. Per quanto riguarda la DC, ha senz'altro pesato il condizionamento da essa subito ad opera delle sue componenti più conservatrici e dal Vaticano. Sul partito di De Gasperi si sono infatti gradualmente concentrate, a partire dall'immediato dopoguerra, le mire e gli interessi della parte più retriva del paese. Quel "ventre molle" dell'Italia che, durante la guerra, aveva assunto posizioni attendiste e guardava con crescente diffidenza al movimento partigiano. Tale componente (alla lunga, maggioritaria nel partito) ha condizionato la politica di De Gasperi. Avallando la feroce repressione messa in atto dal ministro dell'interno Scelba nei confronti dell'opposizione operaia e contadina. Tra la fine degli anni '40 e l'inizio degli anni '50, si assiste a uno stillicidio di violenze nei confronti di lavoratori inermi. Dall'eccidio di Portella delle Ginestre (1° maggio del '47) ai morti di Modena, Torremaggiore, Montescaglioso, Melissa, Lentella... Di qui l'amara considerazione di Ferruccio Parri. Il quale, polemizzando con Croce (per il quale il fascismo avrebbe rappresentato una "parentesi" nell'evoluzione dello Stato liberale), sosterrà, al contrario, che esso (inteso come tendenza di fondo all'autoritarismo e all'etero direzione) rappresenta una tendenza endemica nel popolo italiano. Che scorre sotterraneamente in alcuni momenti di svolta (ad esempio la guerra di liberazione) per riemergere periodicamente.
Anche nel PCI si evidenziano vistose contraddizioni. Se infatti è difficile dubitare della sincera accettazione del metodo democratico da parte di Togliatti, non altrettanto si può dire delle sue scelte di politica internazionale. Caratterizzate da un totale allineamento alle posizioni dell'URSS staliniana. Che si manifesterà, in particolare, nel 1956, quando Togliatti e l'intero gruppo dirigente del PCI, con l'unica lodevole eccezione di Giuseppe Di Vittorio, esprimeranno comprensione nei confronti della dura repressione della rivolta ungherese da parte dei carri armati sovietici. Tale collocazione internazionale del partito, che non verrà messa in discussione fino agli anni '80 (con lo "strappo" finalmente operato da Enrico Berlinguer) peserà come un macigno nel frenare l'evoluzione di una sinistra riformista e socialdemocratica quale quella vincente nei paesi dell'Europa occidentale. Regalando un prezioso alibi alle forze conservatrici e reazionarie.
A particolari riflessioni spinge infine la breve e sfortunata esperienza del Partito d'Azione. Si tratta di una forza politica che ha contribuito in maniera determinante (grazie alle brigate "Giustizia e Libertà"), alla Resistenza. Ciononostante essa (che annovera esponenti prestigiosi quali Ferruccio Parri, Ugo La Malfa e Vittorio Foa) avrà breve vita dopo la liberazione. Fino al suo scioglimento, nel 1947. Quali i motivi del suo scarso successo? Non sono mancate accuse di "èlitarismo" nei confronti dei suoi dirigenti e militanti. I quali non avrebbero saputo "parlare alle grandi masse", a causa del loro radicalismo laico e di una cultura sostanzialmente estranea e incomprensibile alla classe operaia e ai contadini. Pur riconoscendo quanto di vero c'è in queste critiche, è tuttavia innegabile che il PdA è il partito che, durante la Resistenza e nell'immediato dopoguerra, si presenta come quello più inattaccabile dal punto di vista della "purezza" democratica. Esso infatti non ha "scheletri nell'armadio". Non ha legami di sorta con sistemi totalitari (come il PCI e, inizialmente anche il PSI nenniano). Non è subalterno ad alcuna autorità religiosa (come la DC). È un partito rigorosamente e coerentemente laico. Unico a opporsi, insieme ai socialisti, all'approvazione dell'art. 7 della Costituzione. È l'erede storico della migliore tradizione liberal-socialista. Quella di Piero Gobetti e dei fratelli Rosselli. E crede fermamente nella necessità di riformare radicalmente la società italiana. Aprendola alla partecipazione attiva e cosciente del popolo e delle masse lavoratrici. Sorge dunque il dubbio che esista una sorta di incompatibilità di fondo tra gli azionisti e un paese che storicamente ha rivelato sempre una certa allergia nei confronti di una reale laicità. Si veda in proposito l'atteggiamento dello stesso Togliatti nei confronti dell'art. 7. In altri termini, quale spazio avrebbe potuto esserci per un partito come il PdA in un paese perennemente alla ricerca di miti, ideologie e "autorità" di qualsivoglia natura? La sua condizione è inevitabilmente quella del classico "vaso di coccio". Schiacciato tra le due grandi "parrocchie" democristiana e comunista. In conclusione si può affermare, alla luce delle difficoltà che ancora oggi una "normalità laica" incontra nell'affermarsi in Italia (vedi i ritardi con cui si è arrivati a regolamentare le unioni civili e le difficoltà incontrate dalla legge sul “fine vita”...), che l'aver "soffocato nella culla" le forze più genuinamente liberali dello schieramento democratico non ha sicuramente giovato all'evoluzione civile e politica del nostro paese. Che, a distanza di settant’anni, si trova di nuovo alle prese con pulsioni populiste e con l’inquietante riemergere dei fantasmi neofascisti.