Costantino Felice, Il Mezzogiorno tra identità e storia. Catastrofi, retoriche, luoghi comuni, Donzelli, Roma, pp. VI-282, € 20,00.
Recensione di MARIO SETTA
L’aveva già scritto un libro sulla stessa tematica, e trappole dell’identità (dicembre 2009), e ci ritorna oggi con Mezzogiorno tra identità e storia. Catastrofi, retoriche, luoghi comuni. Anch’io mi permetto riprendere le parole di una mia recensione al suo libro più importante, Dalla Maiella alle Alpi: «Da abruzzesi, non possiamo che essere grati a Costantino Felice, storico abruzzese, per il suo ultimo libro. E non si può che dire bene di quest’opera, se non altro per l’impressionante documentazione e una diagnosi accurata che sfocia a volte in una critica acida e sferzante. Non so se di Costantino Felice si possa dire quel che diceva Jacques Le Goff di Marc Bloch, nella prefazione al libro “Apologia della storia”: “un affamato, un affamato di storia, un affamato di uomini nella storia. Egli è un mangiatore di uomini”. La mia personale amicizia e, in qualche modo la discreta collaborazione quasi trentennale con lui, mi induce a condividere questo giudizio. Felice ha sempre affrontato le tematiche storiche abruzzesi con grande passione, ma con altrettanta acribia nella ricerca».
Ed è proprio sul tema della centralità dell’uomo, “di cui sia Bloch che Febvre sono interessati” (p. 126), che Felice sofferma la sua attenzione, riprendendo la frase-slogan degli storici francesi: «La storia è l’uomo». La storia ha il compito di conoscere l’uomo, di studiarlo nei suoi diversi aspetti, di analizzarlo con gli strumenti di un medico o di uno psicanalista. Ma la storia non è una scienza. Non lo è mai stata. Né lo sarà. Per di più voler scandagliare l’identità dell’uomo-uomini, «una categoria così ambigua e sfuggente» (p. 141), rischia di essere un’opera interessante, ma illusoria e perfino vana. Forse si può riuscire a delineare l’identità dell’uomo, «la questione all’ordine del giorno dice Felice (p. 157) citando il sociologo Bauman, ma l’essenza dell’uomo che è essenza della vita, resta il grande mistero umano.
Chi è l’Uomo? Stranamente non è mai stata inventata una parola che includa i due generi, maschio e femmina. E già questa semplice constatazione fa capire che parliamo e siamo in una storia plurimillenaria falsificata, manipolata. Non esiste un modello ideale di uomo, che la storia ha il diritto-dovere di realizzare. La storia cerca di fotografare, di rappresentare, prescindendo dal giudizio morale.
Felice presenta una serie di miti e stereotipi sugli abruzzesi, “forti e gentili”, che tende a sfatare e demitizzare, come «trappole dell’identità». Quelle di carattere letterario, “i cafoni” di Silone o “i contadini” di Jovine. Non solo. Ma, anche le testimonianze degli ex-prigionieri di guerra, ospitati e sfamati dalla gente abruzzese, fenomeno passato ora alla storiografia come Resistenza Umanitaria (Adolfo Pepe, Claudio Pavone, Gabriele De Rosa), che cerca di rigettare come passaggio indebito dall’ethnos all’ethos.
Felice ha raccolto una documentazione straordinaria, già in gran parte riportata in Dalla Maiella alle Alpi, ripresa dalla collana E si divisero il pane che non c’era e dal libro antologico Terra di Libertà, storie di uomini e donne nell’Abruzzo della seconda guerra mondiale a cura di Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta. La sua interpretazione, assolutamente libera da qualsiasi vincolo, non può che essere corretta e interessante, anche se talvolta intransigente, come nell’analisi del libro di John Verney, A Dinner of Herbs, tradotto in italiano, “Un pranzo di erbe”.
Tutti gli scrittori di autobiografie sull’aiuto ricevuto dalla gente abruzzese sembrano ripetere un refrain:“la generosità”. D’altronde Roger Absalom, il maggiore storico sulla prigionia alleata in Italia, molto legato all’Abruzzo, nella presentazione al libro di Simpson, La guerra in casa scrive: «L’eccezionalità della partecipazione popolare all’assistenza agli ex prigionieri di guerra alleati soccorsi a Sulmona, come viene raccontata da Simpson e da altri memorialisti, fu temporale più che spaziale. Ciò che successe in quel di Sulmona fu solo un tassello del mosaico dell’assistenza agli ex prigionieri che interessò tutta l’Italia centro-settentrionale. Mettendo tali tasselli pazientemente insieme, si può capire il sentire profondo di chi è stato ex prigioniero in quel momento della storia e di chi è stato coinvolto nell’aiutarlo. Mi sento, comunque, autorizzato a dire che a quella storia si può attingere anche adesso, come ad una fonte di reciproca comprensione, di antica saggezza, per riscoprire la nostra “umanità” e per sopravvivere, come dicevano le madri contadine, “facendo del bene”».