Recensione di Nando Cianci
Quand’ero bambino, i miei nonni e i miei genitori mi insegnavano a raccogliere il pezzetto di pane caduto per terra, a soffiarlo, a baciarlo e poi mangiarlo. Oltre che a sviluppare, forse, un po’ di difese immunitarie (il soffio aveva più valore di rituale che di eliminazione effettiva delle impurità attaccatesi), quella pratica di vita mi ha lasciato una totale incapacità di buttare un qualunque frammento di cibo. Che va sempre conservato e mangiato “riscaldato”. Nei luculliani pranzi di matrimonio che usano oggi dalle mie parti, vedere decine di piatti che tornano indietro, con pietanze appena assaggiate e destinate alla spazzatura mi provoca tristezza. Continuo a raccogliere, pulire, baciare e mangiare il pane che mi cade.
Devo, ora, a Vito Teti la scoperta di portare dentro di me, con quel gesto, un mondo in cammino: «Nei fondi, nei rimasugli, nelle molliche di pane raccolte e baciate dai rappresentanti di una civiltà parsimoniosa e frugale c’era un nesso con il futuro, una strategia per resistere e non perdere la strada». Basterebbe già questo lampo di luce a giustificare l’impegno, che già dalle prime righe si trasforma in piacere, per leggere il nuovo libro dello studioso calabrese, Quel che resta (Donzelli, pp. 308), impreziosito anche da una prefazione di Claudio Magris.
Si tratta di un lavoro che studia e descrive un’umanità dolente, lo spaesamento del partire, del tornare, ma anche del restare, che coglie gli abitanti di paesi condannati per secoli all’abbandono da invasioni, catastrofi naturali ed emigrazione. Ma che analizza l’abbandono, le situazioni e le prospettive di chi è partito e di chi è rimasto nei luoghi disseminati di rovine per delineare un nuovo orizzonte di vita. Una indagine, che viene reso in molti tratti con il ritmo del racconto, che studia la nostalgia e la malinconia che storicamente vengono attribuite alle popolazioni del Sud da sguardi di osservatori esterni che vengono introiettati fino a diventare una convinzione delle popolazioni stesse. Che studia anche il senso e le differenze delle macerie e delle rovine, il tentativo degli emigrati di ricreare comunità nei luoghi dove vanno ad abitare (il “paese doppio”), con una sofferta relazione con il paese d’origine, il quale, anche per chi rimane, diviene altro da quel che era.
In questo mondo, la Calabria, che conosce profondamente dal di dentro, Teti si muove comunicandoci la sensazione che una ricerca antropologica non ha senso senza costruire «relazioni di amicizia, fiducia e affetto». Infatti, nella scrittura le vite delle persone non vanno a congelarsi in freddi dati (pur essendo il libro documentatissimo anche sul piano statistico), ma sono seguite quasi una per una, con il carico individuale e comunitario che esse portano con sé. In tal modo, percorrendo il terreno di una indagine rigorosa, l’autore riesca a farci vivere storie individuali (che a volte fanno riaffiorare altre storie sommerse), frammenti di quotidianità, anche piccole beghe di contrada e arrabattamenti, senza che si abbia mai l’impressione che quel terreno venga abbandonato e si indulga al bozzetto di maniera. Un risultato reso possibile dall’inserirsi delle piccole storie in una corrente umana che si snoda nei secoli, con passaggi epocali inquietanti, in un intreccio profondo e drammatico con le vicende dei territori e di una umanità più larga.
Nella ricerca di quel che resta, Teti si imbatte nei ruderi, nelle rovine, nella melanconia e nella nostalgia, elementi che tornano spesso nel libro, attraverso tempi e luoghi diversi, quasi come se il registro di scrittura si adeguasse ad una concezione ciclica del tempo.
Tutti questi elementi sono analizzati tenendo presente le loro differenze e le loro diverse accezioni. Ad esempio, la nostalgia e la melanconia vengono declinate nelle loro mille presenze nella storia, nei luoghi e nel conseguente variare dei significati. Sempre tenendo presente che esse, viste dai più come compagne negative del cammino umano, diventano a volte strategie di sopravvivenza e possono anche fornire una carica positiva e di rinnovamento: «Non esiste modernità senza un autentico, sofferto, problematico rapporto con il proprio passato, senza un legame con la tradizione, il riconoscimento della propria storia». È una costante, questa, del cammino di Teti, che, mentre assapora l’amaro senso della sconfitta, immagina sempre cure e soluzioni. E cerca elementi positivi in tutto. Anche nella malinconia, come si è detto, che può persino avere una carica eversiva. Cerca ostinatamente in tutto, anche in fenomeni negativi, una fiammella per riaccendere la vita nei luoghi amati. Per esempio egli sa bene che i «i reportage mordi e fuggi» nei luoghi dell’abbandono e delle rovine, dettate da una certa modo alla ricerca dell’esotico, nulla ci dicono dell’anima dei luoghi, ma -come ognuno che ami terre, luoghi, muri e strade dei paesi abbandonati e che vede in essi nuove possibilità e non semplici occasioni di nostalgia- cerca uno sbocco positivo anche alla moda estetizzante, che di per sé è superficiale e passeggera: potrebbe «essere un’occasione per rimettere al centro la questione del destino dei paesi e del bisogno di una progettualità nuova, non ideologica, capace di ripensare per i luoghi periferici, interni, non metropolitani, forme di vita, immagini ed occasioni di rigenerazione nuove e sostenibili».
Insomma, la visione di Teti non è pervasa da nostalgia fine se stessa, né da turismo dei ruderi e delle rovine. Egli non si illude di far rivivere un passato morto per sempre: «Sto parlando del presente […] si vuol affermare, oltre che il diritto alla memoria, un diverso modello di sviluppo». Si potrebbe dire che laddove altri vedono solo ruderi e rovine, l’autore vede possibilità di vita e di nuove comunità. Avendo ben presente che si tratta di una questione politica: questa nuova vita è possibile solo con un nuovo modello di sviluppo. Non si tratta di rimpiangere il “bel tempo antico”, ma di inventare una nuova comunità. E non si tratta neanche di un ottimismo spensierato: nel cuore di Teti la speranza di veder risorgere, in modalità che fondino l’antico e i tempi attuali, la Calabria delle comunità e della vita è sempre sentita, ma in modo che appare spesso dolente, quando la speranza sembra contraddetta dalla lucidità dell’osservazione del presente (oltre che del passato).
Il libro è di una ricchezza difficilmente sintetizzabile in poco spazio. Leggendolo, siamo condotti in viaggio attraverso spazi, racconti, storie, miti, leggende, lo scorrere secolare delle culture mediterranee, la sacralità dei luoghi e la loro decadenza, il contributo dato a questi processo dalle religioni e dall’epica (Cristo, Mosè, Ulisse, l’ebraismo), la concezione del tempo che esse sviluppano. Ed ancora -senza che il tema centrale scompaia mai dall’orizzonte- i vampiri, i mostri e gli alieni, che «si aggirano tra le rovine della modernità» e sui quali gli artisti «hanno riversato un sentimento ambiguo di attesa e di terrore della fine». E per tanti altri luoghi e tempi l’autore ci accompagna, con lo sguardo “lento” di chi scrive, come diceva un poeta, per capire, non per aver ragione[1]. Come Teti rende in altre parole: «Scrivere non solo per sé, ma anche per gli altri, ha molto a che fare con il camminare, il viaggiare, l’avventura, l’incontro: tutte pratiche che hanno bisogno di altri».
Il tutto tenuto insieme dallo sguardo unificante con cui l’autore abbraccia schegge, vuoti ed ombre (che costituiscono la tripartizione del volume). Uno sguardo reso possibile dal bagaglio che Teti in questo viaggio reca con sé: come il “villaggio della memoria” di cui scrisse Ernesto De Martino, che ognuno ha dentro di sé per non perdersi e non smarrirsi, Teti porta in sé una biblioteca, una cineteca, una pinacoteca che non sanno di libresco e di chiuso, ma che lo accompagnano nel suo relazionarsi a uomini e cose, un patrimonio interiore che rimane sempre fresco e vivo e non conosce la polvere che a volte, in altri, l’erudizione può generare. Ad evitare la polvere concorre l’aver profondamente vissuto i luoghi e la gente della sua terra. Da questa frequentazione consegue anche che gli aspetti teorici, le teorizzazioni che ogni ricerca porta necessariamente con sé, e che ne costituiscono lo sfondo e il punto di arrivo mai definitivo, sono innervati da una concretezza lucida e spietata, nella quale la carne degli uomini e il territorio sono stretti in un’unica fisicità. Alla quale è connesso il modo di essere di individui e popolazioni.
Il libro realizza, così, una bella simbiosi tra rigore scientifico e narrazione del quotidiano, tra sguardo sui tempi lunghi e vita dei singoli individui e delle comunità. Un rigore che procede a braccetto con l’onestà intellettuale di uno studioso che si interroga e cerca, alieno da ogni supponenza e da quella “boria scientifica” tanto aborrita da Alfonso Di Nola, e che è persino umile nella sua profondità: «Certe volte (…) mi viene da pensare che, forse, la costruzione dell’ombra e la fine dell’ombra siano una mia invenzione, la proiezione di una mia profonda nostalgia». Un’umiltà che riaffiora anche alla fine del libro, dove l’autore, dopo averci condotto con mano sapiente in luoghi, terre, tempi, della storia e dell’anima, con una imponente, ma non ingombrante, mole di riferimenti artistici e letterari, lascia che ad indicare la via da percorrere siano le profonde e toccanti parole di una suora clarissa. Un’ umiltà che commuove, perché viene dalla sintonia con i luoghi; direi la stessa umiltà della terra. Che è quella che rende capaci di guardare lontano, all’indietro e in avanti, con la consapevolezza che dalla storia e dalla natura ci vengono carichi dolorosi di cataclismi e sciagure, che causano rovine, ma anche doni e ricchezza. E che all’uomo viene sempre salvata la possibilità di scelta.
[1] Giovanni D’Alberto, Anno scolastico a Mur di Cadola, Nuovi Sentieri, 1990.