di NANDO CIANCI
Il rimprovero che con regolare frequenza viene rivolto a quanti levano continuamente la voce contro la guerra è di essere sognatori irresponsabili. Quando ci si mantiene in margini costumati. Altrimenti si passa a bollarli come utili idioti per il nemico.
A farlo sono, per lo più, intellettuali che, travolti dallo sdegno contro il despota aggressore, finiscono per abdicare alla funzione loro propria di vedere ed intendere l'insieme delle cose e finiscono con il concentrarsi su una parte della questione. La parte più odiosa è terribile, certamente, ma pur sempre una parte. Cerco di spiegarmi. È del tutto ovvio che quel che davvero importa circa la guerra è costituito dal suo terribile carico di vittime e distruzioni.
Esso ci affligge, ci sgomenta, ci fa indignare nel profondo dell’animo. E tuttavia questo carico angoscioso si inserisce in un contesto ampio, denso di addentellati affaristici, di ciniche fortune politiche personali, di sostanziose volontà di potenza e di una quantità di altre componenti e complicazioni. Un contesto che ha alle spalle delle cause e davanti delle conseguenze. Se vogliamo fermare la guerra ed evitare che si ripeta in futuro occorre comprendere le prime e guardare alle seconde. In ragione di ciò, gli avvenimenti che abbiamo sotto gli occhi, per quanto drammatici, sconvolgenti ed intollerabili per la nostra coscienza, sono una parte – ripeto: quella che davvero importa – di quel groviglio disgustoso che chiamiamo guerra. Ma, per quanto sia dura ammetterlo, non si va lontano se si scambia questa parte con il tutto.
Si finisce, anzi, col non rivolgere alcuno sguardo analitico ai colossali interessi economici (che sono in ballo anche quando vengono ammantati di nobili ideali), alla storia pregressa, ai movimenti nello scacchiere internazionale, alla geopolitica, alle trasformazioni culturali ed antropologiche in atto. Scarso spazio viene concesso al pensiero critico, che pure è quello che tiene in vita le democrazie. Scatta, al contrario una sorta di Taci, il nemico ascolta che viene opposto a chi solleva dubbi, a chi vuol vedere anche quel che non ci viene mostrato, a chi pensa che la costruzione della pace sia qualcosa di più complesso che concentrare armamenti e scatenare l’odio popolare. Si verifica così il paradosso che proprio i più accesi “realisti’’, che impartiscono lezioni di pragmatismo a chi invoca la pace immediata, diventano i protagonisti più astratti del dibattito. Perché chi scambia la parte per il tutto perde di vista il mondo reale. E perché così si ignora la potente concretezza dell’attività umana che sopra ogni altra distingue la nostra specie e ne determina l’esistenza: la politica.
Riducendo, e un po’ immeschinendo, la visione del conflitto, gli intellettuali smarriscono la loro funzione e si riducono ad agitatori di tifoserie (e qui occorrerebbe aprire una parentesi su come al degrado del loro ruolo contribuisca una vorticosa diffusione di narcisismo e autoreferenzialità; ma non ce n’è qui lo spazio).
Fra le attività precipue dell’intellettuale – insieme a quella di ‘’intelligere” le cose nel loro insieme – vi dovrebbe essere la capacità di cogliere (possibilmente in anticipo) i grandi mutamenti della storia. E non vi è dubbio che in tale ambito ricadano, come causa ed effetto insieme, le potenti e veloci trasformazioni delle tecnologie, tanto di pace che di guerra (che qualche volta si toccano anche). La loro invasiva presenza e l’intelligenza artificiale (che a volte fa paura, ma qualche volta si rivela più saggia di quella umana) rendono la guerra altra cosa da quella che abbiamo studiata sui manuali.
Tutta la tradizione di pensiero che ci aiuta a capire la guerra e ad affermare la pace ha certamente molto da dirci. E, per esempio, tanto possiamo imparare in proposito da Kant, Freud, Fromm, Marx, o anche da personaggi come Don Milani, e da un’altra ampia schiera di pensatori del passato. Senza di essi saremmo intellettualmente più poveri ed indifesi. Ma il quadro mutato delle relazioni internazionali, delle tecnologie sempre più potenti, degli squilibri sociali ed umanitari sempre più scandalosi esigono pratiche di vita e di politica che, a loro volta, richiedono il sostegno di una nuova stagione creativa, libera e profonda, del pensiero. Specie, ovviamente, di quello collettivo. Oltre che, si intende, di una formidabile partecipazione popolare.
A fronte di ciò, appaiono al di sotto della soglia del patetico gli approcci da curva sud che certi intellettuali (che pur non di rado manifestano un qualche valore nel proprio ambito specifico) riservano al conflitto in Ucraina, attardandosi in visioni manichee che non sono molto utili ad intendere il mondo. Francamente, e senza scontare nulla alla spinta criminale che ha messo in moto il conflitto, ci vuole molta buona volontà per considerare il fronte pro-ucraino come un coro di angioletti esportatori di libertà e democrazia e di difensori dell’indipendenza. Di tali “esportazioni” e difese "disinteressate'' è piena la storia, anche recente. Esse sono affascinanti nel mentre il teatro di guerra è attivo, ma hanno un difetto: in genere rivelano la loro vera natura quando le ostilità cessano e i macelli sono stati compiuti.
Occorre, dunque, affrontare problemi che, pur avendo molto di antico, si manifestano in modo nuovo. Ed elaborare, di conseguenza, percorsi all’altezza dei tempi. Crogiolarsi tra gli slogan e i desideri di crociata ci pone inesorabilmente fuori dalla possibilità che sia l’essere umano a decidere, per quanto gli è dato, la sua storia.