La secolare battaglia contro una tradizione rigida e imbalsamata che ostacola la ricerca e il libero pensiero si va trasformando nel suo opposto: la dittatura di un presente che vuole cancellare il passato, la storia e la memoria. Ma i classici ci mantengono in vita.
di NANDO CIANCI
Nel marzo del 1992, i genitori di una scuola elementare nella contea di Duval, in Florida, stabilirono che la lettura della favola di Biancaneve era pericolosa per i loro bambini, perché incuteva terrore. Dimenticavano, quei preoccupati genitori, che la crescita porta di per se stessa l’attraversamento di conflitti, problemi, ansie, paure.
Che attraverso le fiabe, a livello inconscio e in modo fantastico, il bambino comincia ad entrare in contatto con i misteri della vita e i problemi del mondo e a capire che di fronte ad essi bisogna scegliere quale persona essere.
Certo, nelle modalità tipiche dell’età, che richiedono libero campo a gioco, fantasia ed anche spensieratezza. E che non implicano il livello di responsabilità che i bambini acquisiranno, se tutto andrà bene, man mano che si inoltreranno nell’età adulta[1].
Ignoravano probabilmente, quei genitori, di aver aperto la strada a future stagioni nelle quali la preoccupazione di “ripulire” il mondo dalle brutture perpetrate dagli uomini nei secoli avrebbe scatenato una vera e propria guerra contro il passato. Una escalation che ha poi raggiunto toni anche aggressivi, dei quali stanno facendo le spese statue e monumenti in varie parti del mondo[2], scrittori, filosofi, artisti e personaggi vari della cultura. Qualche volta tali battaglie si ammantano di motivazioni pedagogiche (che, in realtà, rispondono sempre al progetto di società che si ha in mente). Altre volte rappresentano obiettivi di una offensiva politico-culturale che immagina di creare valori e comportamenti nuovi radendo al suolo il passato ed evitando di confrontarsi con esso e con la sua eredità. Alte volte ancora fa debordare le istanze del “politicamente corretto” in una sorta di dittatura che sopprime brutalmente ciò che non si ritiene tale. Non mancano, infine, manifestazioni di vera e propria schizofrenia che – più che la brutalità del passato – indicano la confusione e la deriva del presente.
A questo intreccio di motivi corrisponde, ad esempio, il cannoneggiamento di cui sono vittime in queste settimane, negli Stati Uniti, gli autori della classicità. Guardati, anche, con una sorta di strabismo. Di essi non si guardano gli aspetti artistici e letterari, né quello di documenti straordinari di miti, accadimenti storici, valori che si affermarono in varie epoche e società umane. Tralasciando anche il godimento estetico che poesia e prosa possono procurare, non si sottopongono le opere della classicità ad esami critici (filologici, storici, antropologici, ecc.), ma si liquidano i loro autori come teorici della supremazia dei bianchi. Come è accaduto, ad esempio alla Howard University (Washington, D.C.), che ha deliberato di chiudere il dipartimento degli studi classici, seppellito, senza neanche l’onore delle armi, con un freddo comunicato burocratico.
Per una bizzarra coincidenza, la Howard, che i giornali definiscono come “storicamente afroamericana”, si allinea ad una tendenza che ha avuto inizio in epoca reaganiana e ha portato a varie cancellazioni dei classici greci e latini da grandi università americane.Una tendenza che nella società è avanzata, però, in modo schizofrenico. Nel mentre nell’accademia era già in corso la demolizione dei classici, ad esempio, nel 1993, un colosso dell’industria alimentare americana investiva «700mila dollari per sponsorizzare studi appaiati di management e letteratura: cento volumi in cui si intrecciano grande letteratura, dalla storia alle leggende di ogni tempo»[3]. Anche se, va detto, si trattava di un salvataggio finalizzato al business: i finanziatori rilevavano, ad esempio, analogie tra Agamennone e l’amministratore delegato della Beatrice Food e vedevano in Shakespeare un acuto formatore di manager: «Coriolano risolve i dubbi sull’uso dei pranzi d’affari, Pericle mette in guardia contro gli “yes man”, l’Enrico IV svela i segreti delle tecniche di negoziazione»[4].
I classici, insomma, hanno conosciuto e conoscono varie forme di maltrattamento. E sono rivelatori della saggezza o della faciloneria o della spietatezza arrivistica con le quali guardiamo alla storia.
Negare il passato o promuovere su di esso sentenze sommarie, in ogni caso, non aiuta a creare un mondo depurato da violenze, razzismi e da quanto l’umanità ha prodotto in crudeltà ed ingiustizia. Anzi apre la strada a nuove intolleranze e soprusi, perché indebolisce le capacità d’analisi e il senso critico. Crea, cioè, popolazioni intellettualmente disarmate e facilmente preda di manipolatori. Una delle più grandi conquiste della nostra cultura è stata quella del liberarsi dalla tradizione come corpo monolitico generatore di precetti morali e visioni immutabili, sempre uguale, solo da trasmettere e replicare. La scienza e la libertà di pensiero hanno dovuto combattere, nei secoli, dure battaglie in proposito. E persino pagare dei tributi di sangue per conquistare il diritto non di annullare la tradizione ma di ricollocarla nel giusto alveo di un passato che va studiato, di conservarla per quel che sentiamo ancora connaturato a noi e di rinnovarla alla luce del nostro cammino. Non imbalsamandola, ma facendola restare viva all’interno della libertà del pensiero, della creazione artistica, della ricerca scientifica, dell’espressione dei sentimenti.
Liquidare sommariamente ciò che non corrisponde più al nostro modo di sentire realizza il paradosso per il quale la "profezia" orwelliana di un regime che ristampava continuamente i giornali del passato per adeguarne i contenuti alle esigenze del presente si realizzerebbe oggi in società che amano definirsi democratiche.
Di fronte alla possibile dittatura di un presente che vorrebbe annullare il passato, risulta saggio ricordare che la nostra scienza, il nostro pensiero critico e plurale e le nostre lingue sono anche frutto del lascito della classicità, verso la quale abbiamo un grande debito[5]. E, almeno in campo culturale, cancellare i debiti non aiuta le comunità a crescere e ad essere migliori.
[1] Per il racconto di questo episodio e riflessioni su di esso, rimando al mio libro I mercanti e il tempio, Nuovo Mondo, 1993, pp. 132-135.
[2] Ce ne siano occupati, in questo blog, con l’articolo Il fardello della memoria, di Nando Cianci, e Dietro il monumento, di Massimo Palladini.
[3] La Stampa, 30 aprile 1993.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Ivano Dionigi, Parole che allungano la vita, Raffaello Cortina, 2020, p. 19.
La foto W.A Bouguereau, Omero e la sua guida è di Sailko (commons.wikimedia.org, CC BY 3.0); quella del libro con l'illustrazione di Shakespeare è di pubblico dominio (commons.wikimedia.org, CC0 1.0)