Dall’altro, si corre il rischio di una alluvione di retorica che svuota quei valori di significato in quanto si avverte lo stridere delle parole celebrative con comportamenti individuali e sociali che li negano spudoratamente.
Sicché anche il 25 aprile si trova conteso tra queste due dimensioni, dopo aver conosciuto diverse fasi di popolarità: dapprima ritenuta da molti come festività di parte, segnatamente della sinistra, che ha sempre fatto della Resistenza un’epopea all’altezza delle altre, reali o leggendarie, che hanno caratterizzato la storia della penisola: da Orazio Coclite fino al Risorgimento. Con, in più, connotazioni di riscatto sociale sulle quali si basava l’auspicio che il risorgere della libertà si accompagnasse all’alba del sole dell’avvenire per le classi sociali subalterne.
Di qui anche gli opposti tentativi di riduzionismo o negazionismo, con il tentativo di trasformare quel momento della storia in una guerra civile della quale i protagonisti fossero in qualche modo equiparati. E, anche, di enfatizzazione di episodi oscuri o criminali, che pur vi sono stati, per trasformarli nell’essenza stessa della Resistenza, per fare di essa una pagina nera della storia, quasi che la violenza nascesse non da aneliti libertari e di riscatto, ma dalla stessa sete di sangue e di annientamento della dissidenza che caratterizzava i due regimi che essa combatteva, il nazismo e il fascismo. Poi, ancora, il tentativo di depurarla da ogni connotato sociale e “di parte” per farne una generica celebrazione per la quale vi fosse posto per tutti. Quasi separando – con un’acrobazia storica – l’anniversario della Liberazione dalla Resistenza che ne fu la premessa. Insomma, un appuntamento retorico, sul quale pesa ancora la fatica di liberare la storia dalla polemica politica, che ne tira la coperta ora da un lato, ora dall’altro.
Resta il fatto che il nostro Paese – pur non liberandosi con le sue sole forze – pagò un prezzo di sangue altissimo per uscire da un regime che lo aveva portato ad una luttuosa catastrofe. Lo pagò vedendo stroncata la vita di tanti suoi figli nel tentativo di ridare dignità a tutti. Anche queste ultime parole, è evidente, sono parte di un armamentario retorico che sentiamo ripetere stancamente nelle occasioni celebrative. Ma per spogliarle da ogni ampollosa vuotezza basta fermarsi dieci minuti davanti al Sacrario dei partigiani in Piazza del Nettuno a Bologna per leggere l’età dei 2.059 caduti. O farsi un giro nei mille luoghi d’Italia dove lapidi, sacrari, monumenti, ricordano le vittime civili della ferocia nazifascista e i caduti «per la libertà, per l’onore e l’indipendenza della Patria». Al cospetto di essi, chi oggi si definisce “patriota” perché vuole ricacciare in mare gli immigrati, appare di una nequizia desolante.
La liberazione dal nazifascismo, fuori da ogni retorica, è stata frutto di un concorso complesso di avvenimenti, di forze militari, politiche e civili, di movimenti nello scacchiere internazionale, di utilizzo di apparati economici e di tecnologie. Non per niente la seconda guerra mondiale ha rappresentato uno degli scenari più spaventosi di quest’epoca. Ma se questo stivale sballottato in mezzo a tali avvenimenti epocali può rivendicare di aver fatto la sua parte per togliersi di dosso la crosta liberticida che il regime gli aveva sedimentato sopra per un ventennio, di essere salito ad un grado di dignità tale da riscattare il comportamento di classi dirigenti che di fronte alla tragedia hanno mostrato una pochezza che sarebbe sconfinata nella macchietta, se non fosse stata tragica; se dopo la guerra non siamo diventati un terreno di occupazione e di esercizio del servilismo; se in Italia sono stati possibili, pur fra tanti condizionamenti esterni, una dialettica politica ed estesi movimenti sociali (dalle lotte agrarie a quelle operaie, dai movimenti per la scuola e la sanità pubbliche a quelle per i diritti civili); se questo è stato il nostro dopoguerra, lo dobbiamo anche a quella “meglio gioventù” che sui monti, nelle campagne e nelle città ha vissuto in lockdown per anni e che, quando vi usciva, non era per andare a prendere l’aperitivo. Che ha lasciato a terra il proprio corpo rinunciando a vivere la propria età matura e la propria vecchiaia. Andandosene nel fiore degli anni, direbbe il linguaggio retorico, proprio nel momento in cui la primavera rifioriva. O meglio: lo direbbe un linguaggio che è usato spesso in modo retorico, ma che dice la verità. Una verità che, certamente, deve essere detta tutta intera, nelle sue luci e nelle sue ombre, alle nuove generazioni. Ma che non deve annullare la storia nel grigiore di una lotta politica nella quale agli ideali che spingevano fino al massimo sacrificio si sostituisce lo spettacolo miserrimo di un combattimento senza esclusione di colpi per tornaconti personali o di fazioni.