Più che a demolire i monumenti del passato, dovremmo essere più attenti nell’innalzare quelli della contemporaneità. Senso critico e studio della storia fanno progredire la civiltà molto più delle scorciatoie demolitorie. Il passato sta con noi anche quando è duro da portare.
di NANDO CIANCI
Può un monumento essere razzista? E un libro? Una pittura? Una musica? La risposta, per quanto bizzarra (e un po’ provocatoria) possa apparire, sta nel tempo in cui essi vengono eretti o composti.
Lo sono, certamente, se realizzati in un’epoca in cui la cultura e il senso comune hanno acquisito il concetto che l’origine dell’uomo non è poligenica, o perlomeno non lo è nel senso (che in passato ebbe sostenitori illustri) che la “razza” bianca discenderebbe da Adamo, quella nera da Caino o Sem, quella rossa da Lamech, quella ebrea da Cam. Con una conseguente gerarchia che giustifica il dominio di una razza sulle altre.
Lo sono parimenti ai nostri occhi, ma molto di meno dal punto di vista delle responsabilità individuali di chi vi incappò, se opere e monumenti sono nati in momenti storici e in culture che consideravano “normali” tali gerarchie e portarono i loro contemporanei a celebrare come eroi o come uomini di alto ingegno personaggi che oggi suscitano la nostra (ma non di tutti) repulsione.
Dal che sorge una domanda: fossimo vissuti noi nel Cinquecento o nel Settecento, all’ombra di un senso comune e di intellettuali di grande prestigio che davano per scontata la diversificazione dell’umanità in razze, saremmo stati diversi dagli abitanti di quei secoli? Saremmo andati in piazza per impedire edificazioni di statue e per contestare la pericolosità educativa di libri, quadri o composizioni musicali? Certamente no, salvo isolatissime e illuminatissime eccezioni. Dunque: a quale titolo oggi – nel mentre giustamente e con fierezza proclamiamo il nostro avanzamento di civiltà – ci ergiamo a giudici dei nostri progenitori e pretendiamo di radere al suolo ciò in cui essi hanno creduto?
Questo discorso, al vaglio della passione iconoclastica che oggi pervade una parte di noi, potrebbe sembrare ambiguo. Vale perciò la pena di chiarire: non impancarsi in una inquisizione retroattiva non significa, come è evidente, approvare teorie e posizioni che restano, di per sé, aberranti. Significa esercitare la pietas storica e, soprattutto, assumere verso di esse l’unica posizione che ci compete: studiare e capire (non giustificare). Per comprendere anche come e perché esse siano potute avvenire e, di conseguenza, come fare in modo che non avvengano più. Come consolidare le idee che oggi abbiamo faticosamente raggiunto, grazie anche agli errori, alle aberrazioni, alle sofferenze inflitte e patite da quanti hanno calcato il mondo prima di noi. Certo, di fronte a tutto ciò, il “politicamente corretto” rivendica le sue ragioni. Ma che significa “politicamente corretto”? Impedire al nazismo di mostrarci l’atrocità dei suoi crimini, in modo che le generazioni future li ignorino? Impedire che circolino le opere di Shakespeare perché inducono al turbamento? Censurare Dante con l’accusa di islamofobia e antisemitismo? Non rappresentare più la Carmen di Bizet perché istigherebbe al femminicidio? Abbattere la statua di Giordano Bruno a Campo dei Fiori, perché la sua idea delle razze potrebbe essere equivocata e strumentalizzata dai razzisti di oggi? Togliere Kipling dalle biblioteche perché cantore dell’imperialismo? Impedire la circolazione di Mein Kampf per fare al suo autore quel che egli fece ai libri che non riteneva conformi all’ideologia nazista?
Dice: ma se lo lasciamo circolare può far presa su “menti deboli”. Bene: allora chiediamoci il perché esistano persone il cui apparato culturale è così inconsistente da poter ospitare nella mente e farvi germogliare i semi del nazismo. Non pensiamo di eliminare il fenomeno con i roghi (che, per inciso, era un sistema adottato dai nazisti). Guardiamo alla scuola, all’esempio che danno gli uomini pubblici, al ruolo che gli intellettuali si conquistano o al quale rinunciano. A come parliamo ed agiamo in famiglia con i più piccoli (per esempio: se a tavola accogliamo con esplosioni di odio e invocazioni al patibolo notizie di fatti, anche gravi, o addirittura opinioni espresse da personaggi per i quali nutriamo una profonda disistima, è inutile, poi, bruciare i libri che incitano all’odio).
In ogni caso: pensare che l’umanità avanzerà nascondendo a se stessa il male che ha prodotto (e che è ancora capace di produrre), che roghi e sradicamenti possano estirpare corruzione, fanatismi, pulsioni razziste e fasciste è alquanto illusorio.
Il discorso, si diceva, cambia in riferimento ai tempi in cui le statue vengono innalzate: bisognerebbe essere più attenti nell’erigerle quando si è contemporanei, più che a distruggerle quando si è posteri. Per esempio: Montanelli è figura controversa, che richiama anche momenti nefandi della storia d’Italia. Comunque non ha illustrato l’onore della patria, né ha acquisito meriti universali che consigliassero di farne un mito per i posteri. Erigergli un monumento è stato atto frettoloso. Ingiustificato, frutto di scarso senso critico, di poco uso della ragione. Non poteva che causare contestazioni.
Anche quando si è posteri, però, occorre mettere in atto comunque il senso critico, l’uso della ragione e la pietas storica. Altrimenti si rischia di dar vita ad un nuovo bigottismo. Apparentemente progressista. Ma in realtà reazionario, perché cancellare il nostro cammino, i nostri errori, le tragedie che abbiamo causato e vissuto, passare una pennellata di oblio sulle malefatte dell’umanità non renderà il mondo migliore. Per quanto lastricate di buone intenzioni, i furori iconoclasti sono sempre delle scorciatoie: ti fanno arrivare prima, ma non ti fanno capire la strada percorsa da chi ha costruito quel che vai a distruggere.
La memoria di una civiltà non consiste nella rimozione di quel che non ci piace (e che, per quanto sgradevole, un tempo ci è piaciuto). E la civiltà non procede sostituendo all’indice dell’inquisizione e ai roghi nazisti le liste di proscrizione “democratiche”. Lo spirito critico è incompatibile con l’accarezzare le pulsioni del momento: esso affronta, non nega i problemi. Per quanto scomodo e faticoso sia.
Nell’orwelliano 1984, il ministero della verità si occupava di ristampare e inserire nelle collezioni i numeri arretrati del Times, dopo aver modificato in essi tutto ciò che non era funzionale al regime. In modo che il passato venisse “messo al corrente”. Quando a farlo è l’opinione pubblica di uno Stato retto su principi istituzionali democratici, diviene lecito mettere al corrente il passato?