Caduta in disuso, tanto a destra che a sinistra, la pratica della partecipazione popolare è stata sostituita dall’idea dell’uomo solo al comando. In nome della velocità decisionista e dell’efficacia della battaglia mediatica. Con un restringimento degli spazi democratici che contrasta con i principi della nostra Costituzione. Le vie della democrazia e della conoscenza sono inscindibili, ma molti intellettuali non se ne accorgono.
di NANDO CIANCI
L’alba del digitale era da poco sorta e i social media si apprestavano ad emettere i primi vagiti quando Pierre Vilar scriveva: «Mai l’uomo medio è stato meno “informato” di quanto non lo sia nell’era dell’ “informatica”»[1]. Era il 1985 e gli intellettuali più lungimiranti avevano già intravisto la regressione della conoscenza che andava profilandosi. E, siccome una delle travi portanti di ogni edificio democratico è l’ampliamento della base culturale di chi lo abita, non era difficile dedurre che l’appannarsi della spinta alla diffusione della conoscenza avrebbe avuto ripercussioni negative sulla convivenza democratica.
Con la diffusione dei social, il regresso ha assunto i toni del paradosso. Mai come oggi, in apparenza, vi sono state una maggiore libertà di espressione ed una più diffusa possibilità di intervenire sulle vicende dell’universo mondo. Tutti possono dire tutto su tutto: dall’ultimo provvedimento del governo alla coltivazione delle cucurbitacee nella Patagonia (se mai ciò avvenga), da come il parroco ha organizzato la cerimonia delle prime comunioni alla disputa sugli ingredienti canonici della carbonara. Galvanizzati da questo improvviso ed insperato “potere” (per conquistare il quale nulla abbiamo fatto; il che, essendoci stato regalato, dovrebbe insospettirci), ci lanciamo nel commento di ogni stormir di fronda nel quale ci imbattiamo: il tatuaggio del noto personaggio, la canzone vincitrice del festival, la scuola, il calcio, l’economia, la termodinamica, le neuroscienze, la teologia. Il punto sta proprio qui: è da considerarsi democratico un sistema nel quale tutti possano esprimersi e, soprattutto, decidere su tutto, anche su ciò di cui non capiscono un’acca? La questione è complessa, ma la moda del momento dice senza indugio di sì: basta iscriversi alla fantomatica ed astratta categoria del “popolo”, o parlare a nome di esso, per acquisire il diritto ad occuparsi di tutto ciò di cui non si ha né conoscenza né esperienza e, questione ancor più seria, per decidere su di esso a nome di tutti. Con il che si realizza un secondo paradosso: millantando un rapporto diretto e non mediato con il popolo, in realtà si restringe lo spazio della democrazia. La restrizione avviene nella pratica stessa dell’attività politica, attraverso modalità di rappresentanza che assomigliano più ad un esproprio che a una delega. All’interno dei partiti e dei movimenti (ma ne esistono ancora?) vanno in disuso i sistemi che attivano processi decisionali ai quali partecipano, a diversi livelli e con diversi pesi, componenti variegate: assemblee popolari, sezioni locali, aggregazioni provinciali e regionali. Un meccanismo certamente imperfetto, ma capace di far interessare ai problemi, informare, far esprimere opinioni e far partecipare a decisioni migliaia di persone.
Gli spazi per una consapevole e informata partecipazione popolare alla vita pubblica vanno dunque, per questa strada, restringendosi, rimpiazzati dalle manifestazioni immediate, non dialettiche, a volte virulenti, di umori mediatici spesso fondati sulla suggestione e sulla manipolazione. Al “popolo” si chiede solo di applaudire o inveire, stimolandolo con i moderni ritrovati della manipolazione tecnologica[1].
Riguardo alla seconda, come altre volte è accaduto nella storia, toccherebbe agli intellettuali il compito
[1] In Le parole della storia, Editori Riuniti, Roma, 1985, p. 4.
[2] S veda a ale proposito, su questo blog, l’articolo L’invasione dei bot (per leggerlo cliccare qui).