di Nando Cianci
Sentiamo spesso dire, con toni per lo più preoccupati, che l’invadenza della tecnologia sta oggi cambiando profondamente il nostro modo di stare nel mondo. Le cose stanno, probabilmente, così. Ma rappresentano davvero una novità? Il passaggio dall’andare a piedi, e poi a cavallo e sui carri, al solcare i mari, al viaggiare in auto e treni sempre più veloci, al volare nei cieli, non ha cambiato continuamente il nostro modo di essere? Fidippide che nel V secolo a.C. avanza a grandi falcate nell’Attica per percorrere nel più breve tempo possibile il tragitto tra Maratona e Atene è antropologicamente uguale al macchinista che nel 1830 conduce il treno da Liverpool a Manchester nel viaggio inaugurale? E questi lo è nei confronti di Neil A. Armstrong che nel 1969 posa il piede sulla luna dopo un viaggio nello spazio? Il modo di vivere, di rapportarsi agli altri, al mondo, alla natura, alle divinità non è profondamente mutato? E l’uomo che conosce e pratica la scrittura è lo stesso che viveva nella sola oralità?
Qual è, allora, la novità oggi, con l’irrompere delle innovazioni tecnologiche a mutare ancora una volta i nostri modi di vita, a rivoluzionarli? È, probabilmente, il loro procedere in modo totalitario, il loro affermarsi lasciando sempre meno spazio alla possibilità di altri modi di vita; il loro ergersi a modalità unica dello stare al mondo. Il loro relegare chi non si adegua al loro uso incessante in una condizione che in altra occasione ho definito di sans papiers dell’informatica. Sicché, più o meno a ragione, va crescendo il timore che la cultura elaborata dall’umanità nel corso di millenni possa essere spazzata via, in una sorta di desertificazione culturale che consegnerà il mondo alle intelligenze artificiali.
C'è, dunque, di che sentirsi scombussolati. Ma coltivare l’idea che la tecnologia debba essere “combattuta” e possa addirittura essere arrestata e fatta retrocedere rappresenterebbe un’illusione che ci consegnerebbe al patetico. Perché se la escludessimo dal cammino umano, ci ritroveremmo nudi nella savana: quando ha cominciato ad usare consapevolmente un ramo per bastone (per assumere la posizione eretta, per difendersi, per aggredire), l’uomo ha iniziato ad accompagnarsi alla tecnologia. Inscindibilmente.
Non andiamo, perciò, incontro ai cambiamenti e agli sconvolgimenti a mani nude, ma forti di una cultura plurimillenaria che ci consegna una grande ricchezza. E forti anche di quell’ assai più antico rapporto con la tecnologia che data agli albori dell’umanità.
E, allora, la strada da percorrere non è quella dello scontro, ma dell’incontro fra la cultura che abbiamo accumulato e le nuove tecnologie e i nuovi linguaggi.
Si tratta di un lavoro di lunga lena, che chiama in causa prima di tutto la scuola. Ma non solo: esige impegno da chiunque operi nella società, a partire da chi lavora nei mezzi di comunicazione. Ed, anche, da chi sta sul web. Perché il rischio totalitario che le nuove tecnologie portano con sé non riguarda solo le sfere, decisive, della politica e dell’ economia: si va impadronendo anche del senso comune così come esso si manifesta sulla rete. Dove si diffonde sempre di più la tendenza ad imporre con virulenza la propria inappellabile opinione, intervenendo in modo petulante su tutto e su tutti, ma astenendosi dall’approfondire ciò di cui si parla, dall’argomentare, dall’aprirsi all’ascolto di chi è portatore di punti di vista differenti. Nel gran mare della rete, è ormai più che consueto imbattersi in insulti, anatemi, condanne sommarie; persino in incitamenti alla violenza. È quello che si dice il diffondersi dell’odio online.
È in questo mare procelloso della comunicazione nella rete che salpa oggi la piccola navicella di questo blog. Con un equipaggio formato da persone di diversa formazione e professione, portatricii di identità e modi di stare al mondo differenti, ma accomunati dall’idea che sia possibile un uso di internet diverso da quello sopra accennato.
A passo d’uomo, perciò, si configura come punto di incontro e di dialogo tra persone che si interrogano, riflettono, scrivono, in un confronto al quale ci auguriamo partecipino anche i lettori, che potranno contribuire esprimendo il loro punto di vista, le proprie riflessioni, le loro proposte sull’apposito spazio dei commenti che troveranno in calce ad ogni articolo.
Ci occuperemo di vari argomenti, sui quali cercheremo di gettare uno sguardo che penetri la cortina fumogena della grande fiera dell’intrattenimento e con le orecchie il più possibile libere dal rumore comunicativo che tende a frastornarci. Un rumore che spesso non si presenta come tale, ma assume il suono ammaliante con il quale le sirene tentarono di sedurre Ulisse. Come l’eroe omerico veleggeremo anche noi alla volta della nostra Itaca. Sapendo che Itaca indica il viaggio (che non bisogna affrettare, come ci indica la omonima, bella poesia di Kavafis) e insieme un punto fermo. Che però si può leggere anche come non definitivo; seguìto, anzi, da una nuova partenza, come ad Ulisse fu profetizzato da Tiresia. In questo tornare a casa, ristare e riprendere a vagare c’è forse la metafora della storia culturale dell’umanità, sempre agognante a vivere una nuova età dell’oro (avendone coltivata mitologicamente l’esistenza di un’altra, vissuta primigeniamente e poi perduta) e sempre risospinta verso l’attraversamento di cambiamenti, nuovi orizzonti, altri sconvolgimenti ed ulteriori aurore.
E questo vale anche per la tecnologia. Che l’uomo, accompagnandosi ad essa, sia stato e sia protagonista di mutamenti profondi che riguardano tanto la sua interiorità quanto il modo di relazionarsi con gli altri, non significa che egli sia destinato a perdere progressivamente caratteristiche che si sono comunque mantenute vive per millenni e a diventare una macchina. O un’appendice della macchina. Resta il fatto che egli sta, oggi, al mondo, come portatore di una cultura millenaria che è frutto anche di cambiamenti che non lo hanno sminuito. Lo hanno messo a dura prova, sì, ma spesso anche arricchito. E, dunque, l’uomo, con il suo patrimonio biologico e culturale, ha un suo “passo” nello stare al mondo, perdendo il quale egli non sarebbe più capace di approfondire analisi, di vivere sentimenti, di viaggiare nel suo percorso terreno in compagnia di odori, sapori, suoni. Non sarebbe capace di arte, a meno che non vogliamo considerare arte i frutti musicali, di scrittura, di raffigurazione prodotti dagli algoritmi inseriti nelle macchine portatrici dell’ intelligenza artificiale. E’ dunque con il suo “passo” che l’uomo deve incedere anche in presenza dell’esplosione tecnologica che sta accompagnando il nostro essere al mondo. A passo d’uomo, appunto.
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