Rendita edilizia, inquinamento, devastazione delle coste, traffico caotico, crescita esponenziale dei rifiuti, costituiscono l’altra faccia decisamente sgradevole del “miracolo economico” italiano dei primi anni Sessanta del secolo scorso. Ben se ne accorge un intellettuale di grande sensibilità come Pier Paolo Pasolini, il quale, partendo dalla banale constatazione della scomparsa delle lucciole nella sempre più sconvolta periferia romana, lancia un vero e proprio grido d’allarme contro la “mutazione antropologica” che l’intero paese sta conoscendo.
Il tema è fortemente presente in uno dei più celebri film realizzati in quegli anni dal regista friulano, Mamma Roma (1962). Esso segna l’incontro del regista con la grande attrice Anna Magnani, che recita la parte della protagonista della storia, una prostituta romana, decisa a cambiare vita approfittando del matrimonio del suo protettore, in seguito al quale la donna si ritiene libera da ogni vincolo nei suoi confronti. Il figlio della prostituta, verso il quale lei nutre uno sviscerato amore, ignora completamente il mestiere della madre, essendo cresciuto a Guidonia, piccola cittadina della provincia di Roma. Dotata di grande carattere, la donna, abbandonata la sua precedente professione, avvia un’attività di commercio ambulante di ortaggi e si trasferisce, insieme al figlio, in un piccolo appartamento popolare dell’INA-Casa, in un quartiere periferico piccolo-borghese, nei pressi di Cinecittà, lontano da Casal Bertone, lo squallido rione nel quale è fino allora vissuta. Con l’intenzione di riscattare il ragazzo dalla condizione di sottoproletario, e di inserirlo nell’ambiente “perbene” e rispettabile della piccola borghesia romana, riesce a procurargli un lavoro come cameriere in una trattoria di Trastevere. Ma il suo protettore (simbolo di un destino crudele e inesorabile) torna a tormentarla, costringendola nuovamente a prostituirsi. Quando il figlio viene a conoscere la verità sul mestiere della madre, abbandonata ogni illusione di dare un senso alla propria esistenza, si dà alla delinquenza, e viene arrestato per il furto di una radiolina in un ospedale. Ricoverato nell’ambulatorio del carcere, morirà in preda alla febbre.
Il film di Pasolini, nel quale, come già nel precedente Accattone (1961) il regista analizza freddamente il fenomeno della povertà urbana, trae spunto da un fatto di cronaca avvenuto pochi anni prima: la morte di un ragazzo detenuto nel carcere di Regina Coeli, Marcello Elisei, su un letto di contenzione. Esso ruota soprattutto attorno al tema del disagio sociale di una umanità povera, fatta di emarginati delle borgate e di reietti, che sogna di riscattarsi dalla propria condizione attraverso un improbabile avanzamento sociale. Nel contesto di una città la cui edilizia si allarga a macchia d’olio, divorando la campagna, il ragazzo protagonista del film appare come vittima di un vero e proprio genocidio culturale operato dalla società nei confronti di un sottoproletariato urbano privo di coscienza etico-politica. Ma a fare le spese delle suddette trasformazioni è anche il mondo rurale, nel quale il giovane è vissuto fino all’età di quindici anni, e dal quale è stato sradicato, in nome della possibilità di una omologante ascesa sociale. La forza dell’ideologia pasoliniana si manifesta soprattutto nel personaggio di Mamma Roma che, nel momento in cui persegue il proprio disegno, lungi da ogni spinta solidaristica alla lotta di classe, e da qualsiasi idea di riscatto collettivo (i comunisti, in tale contesto, sono visti come propugnatori di una società di morti de fame), esterna al contrario un evidente, sia pur sotterraneo, disprezzo (ampiamente ricambiato) nei confronti dei “pezzenti” suoi simili e dell’ambiente sociale dal quale proviene. Il prezzo che lei, insieme al figlio, pagherà, a causa del tradimento delle proprie origini, è costituito da una disperata solitudine, e dall’indifferenza mostrata, nei suoi confronti, dalla gente “perbene” alla quale vorrebbe appartenere. L’unico barlume di nobilitazione del sottoproletariato romano sembra realizzarsi, nel film, attraverso i suoi riferimenti alla pittura del Rinascimento, come risulta evidente nella rassomiglianza dell’immagine finale del giovane, legato al letto dell’ospedale, con quella del Cristo morto del pittore rinascimentale mantovano Andrea Mantegna, di fronte al quale piange la madre-prostituta. Anche il film di Pasolini, al pari di quelli di altri suoi illustri colleghi (da Fellini a Visconti), è costretto a subire i colpi della stampa e dell’opinione pubblica tradizionaliste, che colgono l’impatto altamente provocatorio della poetica pasoliniana degli umili. Accolto da fischi e proteste del pubblico, sin dalla sua prima proiezione al Festival di Venezia dell’agosto del 1962, seguiti nei giorni successivi da lettere anonime di insulti e da offensivi manifesti neofascisti, Pasolini dovrà anche subire la denuncia per “offesa al comune senso del pudore” (successivamente ritenuta infondata dalla magistratura) da parte di un colonnello dei carabinieri.
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