L’approssimarsi del centenario della cosiddetta “Marcia su Roma” (28 ottobre 1922), che segna la prima tappa della conquista del potere da parte del Fascismo e del suo capo, Benito Mussolini, sollecita un’accurata riflessione su ciò che quell’evento effettivamente rappresenta, al di là della sua mitizzazione da parte del regime, che ne ha fatto un simbolo, scegliendolo come data d’inizio dell’ “era fascista”. O, al contrario, della sua riduzione a “farsa”, ad opera di una parte della storiografia antifascista del secondo dopoguerra. Proviamo a ricostruirne gli antecedenti e le conseguenze da esso determinate nell’Italia del primo dopoguerra.
All’indomani della Prima Guerra Mondiale, la situazione italiana è caratterizzata da particolari elementi di crisi. Innanzitutto, appaiono, con crescente evidenza, la debolezza delle strutture democratiche e la crisi della classe dirigente liberale, incapace di sostenere l’urto delle aspettative e delle rivendicazioni popolari (operaie e contadine, soprattutto), che si manifestano con vivaci agitazioni e tumulti in varie parti del Paese. In tale contesto, matura, tra gli altri eventi politici di quegli anni (in particolare, la nascita del Partito Popolare Italiano e la crescita della forza organizzata del Partito Socialista Italiano, egemonizzato dalla corrente “massimalista” di Serrati), la creazione dei Fasci di Combattimento (Milano, 1919), primo nucleo organizzato del fascismo, che si caratterizza immediatamente come movimento aggressivo e violento.
Intanto, le vicende della conferenza di pace di Parigi, con il rifiuto, da parte degli alleati, di riconoscere all’Italia la sovranità sulla Dalmazia e sulla città di Fiume, diffondono nell’opinione pubblica italiana un atteggiamento di risentimento, creando il mito della “vittoria mutilata”, e una crescente ostilità verso il regime liberale, accusato di debolezza nei confronti degli alleati stessi. La protesta trova sbocco nell’occupazione di Fiume da parte di Gabriele D’Annunzio e dei suoi legionari (settembre 1919). Contemporaneamente, nel corso del cosiddetto “biennio rosso” (1919-20), dilagano le agitazioni sociali: moti contro il caro-vita, scioperi operai e agrari, occupazione di terre incolte. Le elezioni del novembre 1919, tenute con il sistema proporzionale, vedono la sconfitta dei liberali e il successo del PSI (primo partito) e del PPI. Da esse, tuttavia, non esce una chiara maggioranza parlamentare, per cui il governo di Francesco Saverio Nitti, sostenuto da liberali e popolari, si caratterizza per la sua estrema debolezza.
Avvenimenti ancora più convulsi caratterizzano l’ultimo governo di Giovanni Giolitti (1920-21). Dopo il fallimento di una sua apertura verso il PSI, si giunge all’occupazione operaia delle fabbriche (settembre 1920), motivata da una serrata del padronato metalmeccanico e conclusa con un accordo sindacale. Esso prevede l’accoglimento delle richieste economiche del sindacato e il controllo operaio sulla produzione. Ciononostante, l’accordo delude le aspettative della parte più “rivoluzionaria” dei socialisti, e accentua le divisioni nel movimento operaio, scatenando le critiche dei massimalisti ai “riformisti”. Gli stessi massimalisti, tuttavia, sono accusati dall’estrema Sinistra del partito, raccolta attorno alla rivista Ordine Nuovo, diretta, tra gli altri, da Antonio Gramsci, per la loro incapacità di andare oltre una mera “declamazione” della rivoluzione proletaria. In tale contesto, matura, nel corso del Congresso socialista di Livorno (gennaio 1921), la scissione del Partito Comunista d’Italia, guidato da Bordiga, Gramsci, Togliatti, Terracini, Tasca, attestato su posizioni leniniste.
Tutta la vicenda dell’occupazione delle fabbriche spaventa la borghesia, diffondendo tra le sue file il desiderio di rivincita. Ciò contribuisce a favorire, tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, l’abbandono, da parte del fascismo, dei caratteri originari radical-democratici che lo avevano connotato al momento della sua nascita (repubblicanesimo anti-borghese, avanzato programma sociale non molto diverso da quello socialista), e si qualifica sempre più nettamente in senso anti-operaio e anti-democratico. Strumento fondamentale della sua affermazione è lo squadrismo agrario, un movimento violento, nato con l’obiettivo di colpire le sedi e gli esponenti del movimento operaio e contadino del Centro-Nord (in particolare le “leghe rosse” della Val Padana). Diversi fattori favoriscono la sua rapida crescita: la sua struttura militare (favorita dall’apporto di ex combattenti e reduci), la connivenza dei poteri pubblici (Polizia, Magistratura), il consenso di alcune categorie contadine (piccoli proprietari, mezzadri) che non accettano il controllo delle organizzazioni socialiste nelle campagne (in particolare il controllo delle leghe sul collocamento). Ma determinante risulta, soprattutto, la sua strumentalizzazione da parte di Giolitti, che ritiene possibile utilizzarlo per piegare le opposizioni socialista e popolare (le famose “botte mal date ma ben ricevute”).
L’ascesa del fascismo al potere conosce varie tappe. Innanzitutto, i fascisti riescono a inserirsi nei “Blocchi Nazionali” (coalizioni di Centro-Destra) nelle elezioni del maggio 1921. Queste ultime vedono una sostanziale tenuta del PSI e del PPI, ma anche l’ingresso di 35 deputati fascisti nella Camera, il che conferisce al movimento una sua completa legittimazione. Dopo le elezioni, l’iniziativa squadristica si intensifica ulteriormente, favorita dalla debolezza degli ultimi governi liberali (Bonomi e Facta, 1921-22) e dall’immobilismo dei socialisti, contemporaneamente incapaci di proporre un’alternativa sul piano parlamentare (in quanto ostili a ogni forma di collaborazione con le forze moderate) e di mobilitare la piazza. L’ultimo tentativo in tal senso, lo sciopero “legalitario” dell’agosto 1922, fallisce, anche a causa delle violenze squadristiche.
È in tale contesto che maturano gli eventi che si concluderanno con la “Marcia su Roma”. La sua genesi è legata al timore, da parte del futuro “duce”, che le fortune del suo movimento (diventato Partito Nazionale Fascista nel 1921) possano venire meno in assenza di uno sbocco politico che lo porti al potere. Di qui la decisione di giocare contemporaneamente su due tavoli: quello della trattativa con i leader liberali, per contrattare la partecipazione fascista al governo, e quello della preparazione di un violento colpo di Stato. L’organizzazione dell’azione militare è affidata a un “quadrumvirato” di gerarchi, che stabilisce la sede del comando insurrezionale a Perugia. Quattro giorni prima della marcia, si tiene a Napoli il congresso del PNF, con l’affluenza nella città partenopea di circa 30-40 mila camicie nere. A Napoli si elabora il piano per la conquista di Roma. Mentre gli squadristi avrebbero occupato obiettivi parziali in varie città italiane (prefetture, questure, poste, telegrafi, ecc.), Mussolini sarebbe rimasto a Milano, con un biglietto pronto per la Svizzera, in caso di insuccesso, ma anche per potersi presentare, di fronte al re e al governo, come l’unico in grado di impedire la marcia. Il piano scatta il 27, nell’Italia centro-settentrionale, dove le violenze squadristiche incontrano l’assoluta passività dei prefetti e delle istituzioni pubbliche. A Roma, però, sembra che il re voglia impedire l’ingresso delle squadre fasciste, ma nella mattinata del 28 rifiuta di firmare lo stato d’assedio proposto dal capo del Governo, Facta. Probabilmente è convinto di poter “addomesticare” Mussolini concedendogli qualche ministero. Le cose andranno in maniera diversa, e il “duce”, sfruttando la propria posizione di forza, pretenderà la presidenza del Consiglio. La “Caporetto” dello stato liberale si spiega dunque con la rinuncia all’intervento dell’esercito, che avrebbe facilmente avuto ragione di squadre disorganizzate e male armate. Il pomeriggio del 29, il re conferisce a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo. Solo allora il “duce” prende un treno per Roma e solo il 31 (dunque ben tre giorni dopo la data “fatale” del 28) le squadre fasciste, fino ad allora immobilizzate alle porte della città, cominciano a sfilare per le vie della capitale, sicure ormai di non incontrare resistenza, se non da parte degli abitanti dei quartieri popolari (San Lorenzo, Tiburtino, ecc.), dei quali hanno facilmente ragione. In conclusione, l’evento che segna l’inizio della dittatura fascista non ha proprio nulla di “eroico”. Non gli si addice il termine “rivoluzione”, in quanto avviene con il sostegno di buona parte dell’apparato statale. E nemmeno si può parlare di “colpo di Stato”, perché, almeno formalmente, lo Statuto albertino non viene cancellato. Si tratta comunque di un evento violento e traumatico che non ha precedenti nella storia dell’Italia unita.
Salito al potere, in un Governo di coalizione che comprende, oltre ai fascisti, liberali, popolari e altre forze minori, Mussolini avvierà gradualmente una politica autoritaria, in particolare contro il movimento operaio. E, attraverso la creazione di nuove istituzioni (in particolare il Gran Consiglio del Fascismo e la Milizia) incompatibili con i princìpi democratici, procederà a smantellare le strutture dello Stato liberale.
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