Come ogni anno, l’avvicinarsi della ricorrenza del 25 aprile costringe a proporre nuovamente considerazioni che dovrebbero essere unanimemente condivise dall’intera comunità nazionale. Purtroppo sappiamo che così non è. E allora proviamo a riprenderle.
La Resistenza non è un evento inattuale da consegnare semplicemente alla storia e da “celebrare”. Se è vero, infatti, che la storia è conoscenza del particolare e non dell’universale, è pur vero che in essa i valori universali ricorrono, e come. E la Resistenza è sicuramente uno di quegli eventi in cui sono entrati maggiormente in gioco valori universali: la democrazia, la responsabilità, l’impegno civile, il coraggio delle proprie scelte.
È il caso, dunque, di spiegare perché è importantissimo continuare a riconoscersi nel 25 aprile come data fondante della nostra democrazia. Sforzandosi di capire bene cosa è stata realmente la Resistenza, liberandosi di alcune “vulgate” di comodo, non per sminuirla ma al contrario per esaltare ancora di più chi in quei mesi scelse la via scomoda della lotta partigiana.
I più importanti storici di quel fenomeno (da Piero Calamandrei a Giorgio Bocca a Claudio Pavone) hanno messo in guardia da ogni interpretazione “eroica” del fenomeno. I partigiani non erano eroi senza macchia e senza paura (solo i fanatici e i pazzi non hanno paura), bensì individui che, in un momento drammatico della loro esistenza, si sono trovati di fronte alla necessità di una difficilissima scelta. La decisione non era per niente scontata. Se, infatti, andiamo a fotografare la situazione dell’Italia all’indomani di quel tragico 8 settembre 1943, ci troviamo di fronte un paese spaccato. Non solo geograficamente (sopra e sotto la linea Gustav), ma soprattutto sul piano politico, morale e, oserei dire, antropologico. E qui le Italie non erano semplicemente due, bensì tre.
Un vasto numero d’italiani era su posizioni attendiste: stava alla finestra aspettando con ansia l’arrivo degli anglo-americani. Non più fascista, non se la sentiva, però, nemmeno di sposare l’antifascismo e anzi qualche volta provava fastidio per le audaci azioni partigiane perché erano portatrici di rappresaglie tedesche. Era il “ventre molle” della nazione, costituito dagli eredi di coloro che quattro-cinque secoli prima, durante le guerre d’Italia di fine ‘400-primo ‘500, si accomodavano al motto “Franza o Spagna purché se magna”. Tentavano di sbarcare il lunario e di sopravvivere alla miseria e ai bombardamenti e si sentivano ancora, nonostante la pessima prova fornita dal re e da Badoglio dopo l’armistizio, ancora in gran parte rappresentati dalla monarchia.
Poi c’era una minoranza, costituita soprattutto da giovani, che scelse la Repubblica Sociale Italiana. Non si trattava di un gruppo compatto e omogeneo. C’era chi scelse per opportunismo, perché non aveva il coraggio di darsi alla macchia; oppure perché allettato da uno stipendio sicuro in tempi di miseria totale; o ancora perché non voleva andare a lavorare in Germania. Poi c’erano gli anziani, i fascisti della prima ora, gli squadristi duri e puri (i Farinacci, i Pavolini...), quelli che si riconoscevano nelle ignobili leggi razziali del ’38 e si nutrivano di un superomismo d’accatto. C’erano però anche ragazzi nati negli anni ’20, che non avevano conosciuto la democrazia liberale ed erano stati educati al “vivere fascista” nelle istituzioni del regime, convinti che l’onore della patria, infangato dalla monarchia, andasse difeso continuando a combattere al fianco dell’alleato tedesco. E qui forse vale la pena spendere qualche parola nei confronti di chi si ostina a voler equiparare chi operò questo tipo di scelta a quelli che invece scelsero di combattere la guerra di liberazione. I giovani repubblichini continuavano a riconoscersi nel motto “Credere, obbedire, combattere”, dimostrando un’assoluta incapacità di emanciparsi da una mentalità servile e subalterna. Il verbo “credere” era il prodotto di un fanatismo fideistico che escludeva qualsiasi atteggiamento critico e qualsiasi forma di pensiero autonomo. Pur di fronte all’evidente fallimento del regime e alle tragiche condizioni in cui il paese era stato da esso ridotto, si continuava a operare una professione di fede, una sorta di catechismo dogmatico, nei confronti del fascismo. Quanto all’“obbedire”, l’obbedienza può essere una virtù positiva se attuata nei confronti di leggi democraticamente condivise; diventa nuovamente espressione di fanatismo acritico se professata nei confronti di un uomo. E poi nei confronti di quale uomo essa si esprimeva? Chi aveva arringato per venti anni le folle con parole d’ordine del tipo “se avanzo seguitemi, se indietreggio fermatemi!”, dopo il 25 aprile fuggirà ignominiosamente su una camionetta tedesca, travestito da soldato del Reich, nel penoso tentativo di mettersi in salvo, abbandonando tutti coloro che avevano “creduto” in lui. A proposito del “combattere”, infine, la RSI ha scritto la sua pagina più nera, poiché i repubblichini collaborarono con i tedeschi nelle loro peggiori infamie, dalle rappresaglie contro inermi popolazioni civili alle retate degli ebrei da deportare nei campi di sterminio.
C’era infine un’altra minoranza (più consistente, di là dalle cifre non sempre concordanti fornite dagli storici) che scelse la strada della lotta partigiana. Non si trattava soltanto dei partigiani attivi (circa 300.000 secondo Giorgio Bocca), bensì anche di tutti quelli che appoggiarono fattivamente la Resistenza: le donne che facevano le staffette e portavano viveri e rifornimenti ai partigiani in montagna, oppure intere famiglie contadine che nascondevano e nutrivano patrioti o soldati antifascisti, mostrando un grande “cuore” (sia nel senso della solidarietà sia in quello del coraggio). coraggio).darietà sia i n quello dele nascondevano e nutrivano partigiani o soldati antifascisti, mostrando un grande "orniment Anche tra chi scelse la Resistenza, le motivazioni erano alquanto eterogenee. All’inizio si trattò di una scelta spontanea, da parte di militari sbandati che rifiutavano di consegnarsi ai tedeschi oppure antifascisti di vecchia data, soprattutto comunisti e azionisti, fino allora costretti alla clandestinità. Poi nacquero le vere e proprie brigate partigiane che si riconoscevano nei partiti del CLN. Diversi erano i riferimenti ideologici (si andava dai comunisti ai monarchici) e diversi anche gli obiettivi. Tra i comunisti prevaleva un’impostazione classista (la guerra di liberazione come preludio della rivoluzione socialista), mentre negli elementi più moderati prevaleva l’obiettivo patriottico della liberazione dall’invasore tedesco. Eppure un filo rosso univa queste parti così eterogenee: l’idea che la nuova Italia avrebbe dovuto essere profondamente diversa non solo da quella fascista ma anche da quella liberale pre-fascista. A differenza dei repubblichini, i giovani e meno giovani che scelsero la Resistenza erano persone che volevano ragionare con la propria testa e volevano creare le condizioni per il ripristino di tutte le libertà individuali e per una maggiore giustizia sociale. Per una sorta di “eterogenesi dei fini”, fu proprio questo che parve realizzarsi in quei mesi indimenticabili che vanno dal 1945 al 1947. La gioia popolare che esplose irrefrenabile dopo la liberazione non era dovuta solo alla cacciata dei tedeschi e alla fine della guerra, bensì soprattutto a un grande sogno collettivo che investì l’intera penisola, in particolare al nord: quello appunto di una società più giusta e democratica. Fu un sogno breve, travolto dalla grigia “normalità” seguita alla guerra fredda e alle elezioni del 1948. Eppure fu sufficiente a sprigionare delle energie straordinarie: si pensi, in campo culturale, alla grande stagione del neorealismo cinematografico (Rossellini, Visconti, De Sica...) e di quello letterario (Fenoglio, Pavese, Calvino, Cassola...), o alla contaminazione con la cultura americana (da Hemingway al jazz).
In conclusione, chi combatté dalla parte giusta non si limitò a restituirci la democrazia, ma si fece portatore di valori universali legati all’esistenza umana, quelli appunto della libertà di pensiero, dell’uguaglianza, della cultura. Si tratta di un dato inoppugnabile che nessun revisionismo storico potrà mai offuscare. Ecco perché il 25 aprile resta una data insostituibile della nostra storia nazionale. È necessario ricordarlo a un ministro smemorato che, dopo aver giurato sulla Costituzione nata dalla Resistenza (ma lo sa?), si permette di infangare quella data riducendola a un “derby tra fascisti e comunisti”.