Il 23 marzo del 1919, esattamente un secolo fa, Benito Mussolini fondava a Milano, in Piazza San Sepolcro, i Fasci di Combattimento. Primo nucleo di quello che, due anni dopo, sarebbe diventato il Partito Nazionale Fascista. Destinato a conquistare il potere nel 1922 (dopo la “marcia su Roma”).
Mussolini si rivelò particolarmente abile nello sfruttare gli elementi di crisi che caratterizzavano la situazione italiana nel primo dopoguerra. Innanzitutto la debolezza delle strutture democratiche e la crisi di una classe dirigente liberale incapace di sostenere l’urto delle attese e delle rivendicazioni popolari. A ciò si aggiungeva il malcontento suscitato nell’opinione pubblica dalle vicende della conferenza di Parigi, che avevano diffuso un atteggiamento di risentimento verso gli alleati (vittoria mutilata) e verso il governo. Risentimento che troverà sbocco nell’occupazione di Fiume da parte di D’Annunzio e dei suoi legionari (settembre 1919). In quello stesso anno, inoltre, avevano cominciato a dilagare forti agitazioni sociali, destinate a protrarsi per l’intero “biennio rosso” (1919-20). Moti contro il caro-vita, scioperi operai e agrari, occupazione di terre incolte, anche nel sud.
La nascita dei Fasci, contemporanea di quella del Partito Popolare Italiano e della forte crescita elettorale e organizzativa del Partito Socialista Italiano, testimonia, in quei mesi, il nuovo ruolo rivestito dalle masse nella scena della storia. E il conseguente tramonto, determinato dalla guerra, della società “elitaria”. Come rilevato dallo storico Alberto Caracciolo, nell’immediato dopoguerra le masse (in particolare quelle dei combattenti), infatti, “presentano il conto” di cinquantacinque milioni di morti e trentacinque d’invalidi”. La guerra, inoltre, ha introdotto dappertutto apparati militari o paramilitari, ed esaltato come massimi valori quelli dell’eroismo, della virtù guerriera, del patriottismo estremo. Le origini del fascismo vanno dunque ricercate nelle giornate di maggio del 1915 e nei movimenti popolari della primavera del 1919. In entrambe quelle stagioni, s’intenta un vero e proprio processo al vecchio Stato liberale in piena disgregazione. Contemporaneamente notevoli trasformazioni tecnologiche intervengono a modificare i caratteri della propaganda. Il microfono e l’altoparlante si aggiungono al telefono, già introdotto all’indomani della guerra franco-prussiana (1870-71), e alla radio, operante sin dal 1915. Il tutto contribuisce al processo di “standardizzazione” delle masse attraverso i mass-media. Che determina, a sua volta, la notevole diffusione del linguaggio bellico, prestato alla politica. Come dimostra il ricorrente uso di termini quali “battaglie”, “assalti”, “comandanti”, “esplosioni”, “siluri”.... L’uniforme, dalla camicia nera al fazzoletto rosso, conosce, dal canto suo, una crescente diffusione, densa di significato politico.
Analizzando gli elementi ideologici e le strutture organizzative del fascismo originario, un altro storico, Enzo Santarelli, individua tre elementi costitutivi del nuovo movimento. Il primo è costituito dagli “arditi”, gruppi militari che avevano partecipato alla guerra nei reparti specializzati per l’assalto. Il secondo s’identifica nella parte futurista, strettamente legata a quella degli arditi, la cui associazione, infatti, fondata dal futurista Mario Carli, si appoggia al giornale Roma futurista. La terza componente, invece, vede in primo piano l’équipe mussoliniana del Popolo d’Italia, composta di sindacalisti rivoluzionari ed ex socialisti, destinati a fornire l’apporto ideale e politico più consistente. L’originalità del fascismo consiste dunque nell’accostamento del quadro ex socialista e sindacalista (che gli conferisce un volto di “sinistra”) alle formazioni combattentistiche. Che gli forniscono una base oggettiva di destra. I limiti di tale “sinistrismo” emergono, tuttavia, sin da quando Mussolini, sul Popolo d’Italia, definisce il fascismo come “borghesia del lavoro”. Ciononostante, ancora nel convegno di Firenze (9 ottobre 1919), si proporranno tre misure radicali, di sapore socialista: una “forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, che abbia forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze”; il “sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e l’abolizione di tutte le mense vescovili”, che costituivano un’“enorme passività per la nazione”; la “revisione di tutti i contratti di forniture di guerra e il sequestro dell’85% dei profitti di guerra”. Le suddette oscillazioni tattico-strategiche sono espressione di un abito pragmatista. Che deriva sia dalle correnti e idee su cui Mussolini si era formato sia dalla necessità di misurarsi quotidianamente con una realtà politica permanentemente precaria. Tale sostanziale ambiguità si nasconde dietro una nutrita serie di orpelli retorici: l’appello alla “giovinezza”, il culto dell’energia e della violenza, gli atteggiamenti anti-conformisti, il disprezzo per la tradizione e le masse, le velleità spiritualiste, irrazionaliste e romantiche.
È un dato di fatto, comunque, che il fascismo si caratterizza immediatamente per uno stile aggressivo e violento. Come dimostra il primo atto da esso compiuto: l’incendio della sede milanese dell’Avanti! (aprile 1919). Non è che l’inizio di uno stillicidio di episodi squadristici. Che, tra il 1920 e il 1922, tollerati dai deboli governi liberali, porteranno al sostanziale azzeramento delle organizzazioni del movimento operaio e all’avvento di un regime dittatoriale destinato a durare un ventennio.