Mezzo secolo fa, la contestazione studentesca in Europa conosceva il proprio acme con l’esplosione del “maggio francese”. Il movimento aveva avuto inizio il 22 marzo 2018. Quando l’arresto di sei militanti del “comitato Vietnam” aveva scatenato una manifestazione spontanea di protesta all’Università di Nanterre, alle porte di Parigi. È nel contesto di tale manifestazione che era nato il più famoso slogan del ’68 francese: “Ce n’est qu’un dèbut / Continuons le combat” (“Non è che l’inizio / La lotta continua”).
La protesta si nutriva di una forte carica antimperialista, che spingeva gli studenti a manifestare la propria solidarietà con il popolo algerino e con quello vietnamita. E particolarmente forte era l’influenza di intellettuali come Frantz Fanon, Paul Nizan e Jean-Paul Sartre. Come pure quella di numerose riviste. Socialisme ou barbarie (Socialismo o barbarie), nel cui gruppo militava il filosofo Jean.François Lyotard. Noir et rouge (Nero e rosso). E l’organo del “movimento situazionista”, L’internationale situationniste.
Quest’ultimo movimento costituì indubbiamente uno dei “prodotti” più creativi e duraturi del Sessantotto francese. Nato a Strasburgo, ancor prima dei moti studenteschi, per iniziativa di un gruppo di giovani universitari, il suo principale testo di riferimento era La società dello spettacolo, scritto da Guy Debord nel 1967, destinato a diventare uno dei “classici” del ’68. Il saggio era incentrato sulla denuncia del carattere “spettacolare” della società capitalistica. Responsabile della trasformazione di ogni forma di vissuto in “rappresentazione”. Come tale, ingannevole e mistificante. In quanto spettacolo, in essa era assente qualsiasi forma di finalità. Nello spettacolo, infatti, “il fine è niente, il processo tutto”. Rispetto alla prima fase del trionfo dell’economicismo, che aveva comportato “un’evidente degradazione dell’essere in avere”, la spettacolarizzazione della vita sociale operava un ulteriore “slittamento generalizzato dell’avere in sembrare”. Compito della “critica” rivoluzionaria era, di conseguenza, quello di “instaurare la verità nel mondo”, emancipandosi “dalle basi materiali della verità rovesciata”. Una “missione storica” che non poteva essere compiuta dall’individuo isolato o dalla “folla atomizzata”. Bensì dalla classe operaia che, secondo la tradizionale visione marxiana, fatta propria dal movimento, era l’unica capace di dissolvere la società classista.
Nel corso della protesta del maggio, che per migliaia di giovani costituì un’esaltante esperienza esistenziale oltre che politica, la creatività studentesca si manifestò attraverso slogan rimasti famosi: “Sous le pavè la plage” (“Sotto il selciato la spiaggia”), gridato mentre si disselciavano le strade di Parigi; “L’immaginazione al potere”; “Siate realisti, chiedete l’impossibile”.
La protesta assunse rapidamente la fisionomia di un vero e proprio movimento insurrezionale. Rivolto non solo contro il governo di Georges Pompidou e il sistema gollista, esso sfidava anche la direzione delle forze politiche della sinistra “ufficiale”. Il Partito Comunista Francese (PCF) e la Confederazione Generale del Lavoro (CGT). Accusate di portare avanti una linea “revisionista”. Ciò comportò la “scomunica” del movimento non solo da parte dell’URSS, ma anche di Giorgio Amendola, dirigente del PCI, che, in un articolo sulla rivista Rinascita, definì il movimento francese “errato e dannoso, rigurgito di infantilismo estremista”.
Diversi intellettuali francesi presero posizione a favore del movimento. Tra loro il filosofo Jean-Paul Sartre, che intervenne alla Radio in aperta difesa degli studenti in lotta. Anche il mondo del cinema, in particolare i massimi esponenti della “Nouvelle Vague”, fu attivamente coinvolto nella contestazione. Jean-Luc Godard, François Truffaut, Claude Chabrol, Robert Bresson, Alain Resnais, e altri, parteciparono attivamente al coordinamento delle manifestazioni di protesta di centinaia di registi contro il tentativo del governo di destituire il curatore della Cinémathèque Française, Henri Langlois. Sgradito al potere in quanto le sue idee convergevano con quelle dei registi della Nouvelle Vague. Dopo l’esplosione della rivolta di maggio, Godard guidò il tentativo di bloccare il Festival di Cannes, esortando i manifestanti a occupare i cinema. Mentre Truffaut rivolgeva un esplicito invito ai suoi colleghi ad appoggiare le manifestazioni parigine.
Fra il 13 e il 20 maggio, parve realizzarsi una sorta di “staffetta” tra studenti e operai, testimoniata, in particolare, dall’occupazione della Renault di Billancourt. Il simbolo per antonomasia del proletariato francese. La sensazione di vivere realmente una fase rivoluzionaria era fortemente diffusa tra gli studenti e una piccola parte della classe operaia. Il sociologo Edgar Morin parlò, a tale proposito, di un momento di “estasi della storia”. Ma la controffensiva conservatrice, che raggiungerà il culmine con la vittoria di De Gaulle alle elezioni del 23 e 30 giugno, pose fine ai progetti di liberazione e ai sogni di cambiamento. Rinviati a data da destinarsi.
Cosa rimane, cinquant’anni dopo, di quell’ “estasi” e di quel “grande sogno” rivoluzionario? Resta sicuramente più che attuale la denuncia “situazionista” della spettacolarizzazione della vita sociale. Che, dalla sfera dell’economia e dei consumi si è allargata a quella politica. Sempre più “politica-spettacolo”. Anzi, talvolta (specie in Italia), “politica-teatrino”. Con attori e guitti che conquistano sempre più i posti d’onore. E con masse sempre più eterodirette e incapaci di opporsi validamente a tale deriva. A partire dalle nuove generazioni. Che, a differenza dei “cuccioli del maggio” (come li definiva Fabrizio De Andrè), sembrano aver abbandonato qualsiasi velleità di “pensiero critico”. Eppure, ancora agli inizi del nuovo millennio, in particolare con i grandi movimenti contro la guerra in Iraq e in Afganistan, circolava lo slogan “un mondo diverso è possibile”. Da allora, i giovani sembrano essersi definitivamente piegati al trionfo della “ragione strumentale”. Sempre più impaniati nel mito delle tre “i” (impresa-inglese-internet). La nuova triade dogmatica che pare ormai aver sconfitto anche le ultime resistenze opposte dal mondo dell’istruzione e della cultura. E che rischia di spazzare via qualsiasi residuo di creatività e di “ricerca di senso”. Pare proprio che, a mezzo secolo dal ’68, e a due secoli dalla nascita di Karl Marx, ci si debba rassegnare alla rinuncia a qualsiasi istanza di cambiamento. O bisogna pur sempre affidarsi gramscianamente all’ “ottimismo della volontà”?