Dalle belle città date al nemico
Fuggimmo un dì su per l'aride montagne,
Cercando libertà tra rupe e rupe,
Contro la schiavitù del suol tradito.
Questa canzone partigiana fu composta sull’Appennino ligure-piemontese da ”Cini”, comandante della 3° brigata d’assalto, e “Lanfranco”, giovane studente di musica, durante un turno di guardia. Il testo e la vicenda stessa della sua composizione ci parlano di valli e montagne come dello scenario in cui si svolse la Resistenza, terreno privilegiato per ingaggiare uno scontro impari contro un nemico soverchiante. Anche le città ne furono investite ma, come dice quel testo, erano luoghi perduti dove praticare azioni affidate al coraggio di piccoli gruppi, sabotaggi, atti dimostrativi; anche se non mancarono moti di popolo come a Porta San Paolo quando soldati ed antifascisti a si opposero ai tedeschi, riscattando il disonore della mancata difesa di Roma subito dopo l’8 settembre; o quando, superata ogni misura, il popolo insorse nelle Giornate di Napoli.
I luoghi della Resistenza dunque sono disseminati nel territorio, celebrati soprattutto dalla cornice naturale che ne costituisce il patrimonio e che ancora esprime una dimensione atemporale affascinante. Spesso quelle plaghe sono state protette comprendendole in Parchi intitolati alla Memoria ed alla Pace e basta una camminata perché i suoni, la materia di quei luoghi ci parlino ancora; semplici lapidi, croci, qualche casale riattato a museo bastano nel Canavese, a Sant’Anna di Stazzema, a Pietransieri, negli altri centri delle azioni partigiane e delle rappresaglie a trattenere la memoria di quei giorni.
Questa intima connessione tra la Resistenza ed il territorio meno contaminato del Paese oggi suggerisce la riscoperta e la pratica collettiva dei sentieri partigiani, proponendo un camminare insieme che è anche un’affermazione di appartenenza, quasi a riprendere l’invito di Piero Calamandrei («Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo in cui è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani»). Dai progetti più ambiziosi come quelli che interessano la ex Linea Gotica, a quelli circoscritti alle varie zone se ne sviluppano ogni anno di più. Anche in Abruzzo per 60 chilometri, da Sulmona a Casoli, si popone il “sentiero della libertà”, percorso da resistenti e fuggitivi nei luoghi che furono anche di reclutamento della Brigata Maiella[1].
Particolare valore assumono queste esperienze quando sono concepite nelle comunità locali anche come passaggio generazionale degli elementi basilari della memoria. Ho notizia da una giovane operatrice culturale di una di queste nel Valdarno: a Pulicciano, una frazione montana del comune di Castelfranco/Piandiscò, giovani e anziani, il CAI, la parrocchia insieme ritrovano i luoghi delle loro microstorie, li uniscono in un anello che tracciano, manutengono e ci propongono da percorrere; essi stessi celebrano ogni anno una messa in ricordo di un prete eroe; e intorno a questo recuperano audiovisivi d’epoca, vecchie foto, documenti.
Sulla stessa linea mi sembra (in contesto urbano) l’iniziativa, sempre su base volontaria, di segnare su mappa e frequentare insieme spontaneamente i luoghi salienti dell’aggregazione antifascista nel quartiere romano de La Garbatella.
Naturalmente non si sfugge anche ad una accezione ludica di queste iniziative, presentate come occasioni di trekking a contatto con la natura più che come rievocazioni; tuttavia di esse dò un giudizio positivo, perché consentono di familiarizzare con la storia, senza la ritualità della commemorazione che può assumere suono stonato se contradetta dalle pratiche dei celebranti, come a volte avviene.
Anche per questo in città è più difficile coltivare il ricordo; esso è affidato essenzialmente ai monumenti che spesso si disperdono nel paesaggio urbano (anche quando sono dotati di intrinseco valore artistico) per essere ravvivati da corone e qualche bandiera alle ricorrenze, al di fuori di una effettiva partecipazione popolare; essa, tuttavia, ha ritrovato qualche vigore quando è montata in maniera insopportabile una ondata riduzionista volta a ridimensionare i fatti, ad equiparare i morti, a riscrivere quella storia come scontro tra fazioni.
Fra tutti, mi è già capitato di scrivere che il Mausoleo delle Fosse Ardeatine a Roma, sul luogo dell’eccidio nazista, conserva una sua misurata eloquenza, nel rapporto tra l’enorme monolito orizzontale che copre le inumazioni e il luogo naturale, con la forza selvatica della campagna romana e la ferita nuda delle cave di pozzolana. Oggi la via Ardeatina è assediata di case da un lato e partecipa solo con l’altro al cuneo verde intorno all’Appia antica; ma visitarle è ancora un’esperienza molto suggestiva.
Così è per un luogo del dolore come la Risiera di San Sabba a Trieste, dove il complesso di archeologia industriale è stato conservato con la forza dei suoi volumi in laterizio, dei suoi interni scabri a ricordare che lo stabilimento venne utilizzato dopo l’8 settembre dai nazisti come campo di prigionia di partigiani, detenuti politici ed ebrei, per lo smistamento dei deportati, per il deposito dei beni razziati.
Altri luoghi la città ha riassorbito e vanno ricercati, sollevando il velo coprente di una modernità distratta. A Milano hanno redatto da tempo una Mappa della Memoria con la localizzazione dei luoghi della Resistenza, delle deportazioni e della Liberazione che consente di attribuire valore a scene della città quotidiana in cui gli avvenimenti si compirono, attraverso un rapporto attivo tra chi conosce e chi vuole apprendere. Un’operazione simile e più complessa realizza il Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà di Torino, che connette i vari luoghi coinvolti in città, facendoli parlare con sussidi multimediali nel sito museale, ricavato nel settecentesco Palazzo dei Quartieri Militari di San Celso, progettato da Filippo Juvarra.
Negli ultimi trent’ anni sono comparse le “Pietre d’inciampo”: nascono da un’idea dell'artista tedesco Gunter Demnig per depositare, nel tessuto urbanistico delle città europee, una memoria diffusa dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti; un tassello in porfido, con faccia in ottone riporta il nome delle vittime davanti alle loro abitazioni. La denominazione deriva dall'Epistola di Paolo ai Romani: «Ecco, io metto in Sion un sasso d'inciampo e una pietra di scandalo; ma chi crede in lui non sarà deluso». Questo mi sembra un bel modo per far vivere capillarmente la memoria nel contemporaneo, anche per il lavoro di ricerca che c’è dietro e per la necessaria (e salutare) difesa della loro presenza nelle città, insidiata dal vandalismo fanatico neonazista.
A volte, invece, al compianto ufficiale si accoppia la spregiudicata cancellazione dell’integrità di un luogo per qualche speculazione edilizia. Spiace dirlo, ma questo è avvenuto anche nella mia città, Pescara: a Colle Pineta furono fucilati nove partigiani della banda Palombaro ed ogni anno, grazie alla vicina Scuola Elementare, si ricordano i martiri; nel tempo di mia gioventù, con l’ANPI, proponemmo anche una stele importante, visibile da lontano. Ma oggi il luogo è sovrastato da palazzine ed intensivi che deformano la collina, rendendo residuale il piccolo altipiano. Ancora oggi si progetta nella scuola un itinerario, una piccola risalita al pianoro; ma non si trova ascolto nemmeno per quello.
Dalla ricerca storica, vengono ancora degli stimoli e delle scoperte poco note tra gli stessi cittadini. Così, ancora a Pescara, un recente libro di Marco Patricelli ha dato spessore storico ad un nome posto sulla targa di una stradina secondaria, senza specificarne, fino a poco fa, la qualifica. Scopriamo così che Renato Berardinucci, giovane nato in America e cresciuto pescarese, fu un eroe che, lanciandosi contro il plotone che lo fucilava, permise ad altri una fuga in extemis. Chi sa se ne verrà un ricordo più adeguato.
La città nasconde, ma a guardarci dentro, può restituirci la sua e la nostra storia.