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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

LA SOCIALITÀ POSITIVA

SPEDICATOIl nostro tempo sembra ostacolare i rapporti positivi, altruistici e costruttivi. Ma la nostra sopravvivenza è legata anche alla capacità di comprendere le esigenze altrui e corrispondervi.

 

FIRMA EIDEChe il binomio ordine/disordine sia inseparabile e abbia accompagnato il cammino dell’umanità fin dall’alba del mondo è fatto scontato, ma che l’incertezza, l’insicurezza, la precarietà, siano diventate a tal punto invadenti e pervasive da sembrare espressioni abituali e quotidiane è questione, per molti versi, inedita e inquietante. Abitare un punto del presente all’incrocio di mille accadimenti avanzandovi a tentoni, senza disporre di ancoraggi e punti archimedei non può, infatti, che produrre disarmonia e straniamento (anche da sé) e promuovere compagini sociali pregiudicanti la stabilità della stessa società. Esattamente ciò che oggi è dato registrare. Si pensi, per esempio, alla crescita dell’ingombrante categoria dei fondamentalisti della libertà individuale che vivono per sé stessi; o alle identità iper-semplificatrici che accolgono ogni informazione senza pensarla o a quelle iper-scettiche che divorziano sempre più dalla realtà e danno ogni fatto per scontato; oppure alle soggettività che, adeguandosi a una sorta di agnosticismo di bassa lega e ritenendo che tutto sia precario, inquieto, volubile, cangiante, capriccioso (e dunque non correggibile e modificabile), ritengono sia impraticabile qualsivoglia espressione di impegno e autodeterminazione. Insomma, il tempo che stiamo vivendo, appare infecondo in particolare sul versante dei rapporti positivi, altruistici, costruttivi.
Eppure oggi, più che nel passato, operano organizzazioni e strutture sociali impegnate a farsi carico attivamente delle necessità dei propri simili (si pensi per esempio al volontariato) e la stessa quotidianità è attraversata da innumerevoli note di condivisione, aiuto, solidarietà: ne avremmo consapevolezza se avessimo l’abitudine di annotarle in una ipotetica agenda. Tuttavia, la convinzione che le azioni degli esseri umani siano motivate prevalentemente (o esclusivamente) dall’egoismo è molto diffusa, nonché avallata dai numerosi esempi di violenza, cinismo, sopraffazione di cui l’oggi non difetta e di cui la cronaca non manca di informare. Di qui l’orientamento a relegare le espressioni della socialità positiva in spazi circoscritti ed eccezionali e a ritenere che l’essere umano non disponga di “geni altruisti”. Per ALTRUISMOfortuna la biologia la pensa diversamente: precisa, all’opposto, che nella nostra specie il patrimonio genetico orienta non solo a comprendere le esigenze altrui ma anche a rispondervi in modo adeguato (Silvia Bonino, Altruisti per natura, Laterza, 2012).
Del resto, se così non fosse (se così non fosse stato) l’uomo non sarebbe sopravvissuto a sé stesso e sarebbe scomparsa anche qualsiasi espressione di società: perseguire fini esclusivamente egoistici (a livello micro e/o macro) non può che destinare all’estinzione. Ma così non è (non è stato) vuoi perché l’essere umano non è dotato di rigide programmazioni comportamentali, vuoi perché nella specie cui appartiene la bilancia biologica pende dalla parte della socialità positiva che risulta più vantaggiosa per la sopravvivenza, nonostante i molti orrori della storia passata e recente di cui l’umanità si è macchiata e si macchia (Idem, p.135).Dunque, non è peregrino asserire che l’individuo ha bisogno di riconoscere gli altri come propri simili per realizzarsi e sopravvivere. Ai riottosi sostenitori del contrario, ovvero che questi è biologicamente programmato per identificarsi nelle prassi sociali negative, si potrebbe replicare precisando che la plasticità e la capacità simbolica (di cui l’uomo non difetta) gli consentono di apprendere, selezionare, interpretare, rileggere la propria storia, modificare gli schemi profondi che l’hanno orientata: insomma, correggere i propri errori, svincolarsi dai determinismi, riprogrammare la propria concezione del mondo.  
In un essere plastico e simbolico come l’uomo la cultura gioca, infatti, un ruolo molto forte sul versante della inibizione o della promozione della socialità positiva o negativa. Per esempio, le emozioni e i sentimenti che si provano nei confronti degli altri non derivano solo dal patrimonio filogenetico di cui l’uomo dispone, sono anche il portato dei valori, dei modelli, dei principi, delle norme con cui si viene socializzati a interagire e rapportarsi con gli altri. Voglio dire che l’empatia, la fiducia, la cooperazione, la generosità, la disponibilità non si insegnano da una cattedra o attraverso interazioni virtuali ma incoraggiandoli, favorendoli, praticandoli nella quotidianità, nella concretezza dei rapporti faccia a faccia, in quello spazio della vita spesso vissuto con indifferenza, dimenticando che rappresenta il luogo in cui si costruiscono le relazioni umane e sociali, si impara a stare insieme, a interiorizzare ciò che è giusto o ingiusto, civile o incivile, corretto o scorretto.
La circostanza che nella nostra contemporaneità gli articoli della socialità positiva soffrano, al momento, di scarso riguardo è, a mio parere, da attribuirsi alla circostanza che siamo nel mezzo di un periodo storico-sociale che ha opacizzato (accantonato?) i suggerimenti solidali del nostro patrimonio filogenetico e vistosamente incoraggiato, per dirla con Zygmunt Bauman, quel modello culturale egoistico e autocentrato (la filosofia del cacciatore) che, poggiando sulla logica della episodicità della vita, orienta a perseguire obiettivi esclusivamente personali e ad aver cura  solo del proprio  benessere.
Va da sé che all’interno di tali scenari hanno voce flebile le sensibilità inclusive e le coscienze dialogiche, ossia le prassi che non solo contribuiscono a presidiare i confini della vita civile e del patto sociale (entrambi al momento particolarmente traballanti) ma allertano sulla circostanza che aderire al pregiudizio delle predisposizioni biologiche alla socialità negativa dispensa sia dalla fatica di prestare attenzione al mondo intorno a noi, sia dall’impegno di tradurre in pratica quelle possibilità di relazione positiva cui la biologia ci ha predisposti (Idem p. VIII).
Cosa proporre per contenere i danni di una cultura che orienta a dividere? La risposta ritengo sia una sola: promuovere con costanza quelle espressioni di socialità positiva che ci ricordano di essere parte di una sola umanità.  

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