Paola Ottaviano, La spilla di Anubi, Genesi Editrice - Torino 2021
Sandro Gros-Pietro, nella prefazione, dopo aver accennato a una serie di tematiche sociali, politiche, psicologiche, educative, etiche di cui il libro è profondamente intriso, elogia soprattutto il discorso a favore dell’eutanasia allorquando il destino ci riserva di rimanere sospesi fra la vita e la morte. Lo elogia, poiché ritiene che sia una nobile e convincente pagina sulla libera scelta di affrancarsi dalla cinica insistenza dell’accanimento terapeutico; di sottrarsi, così, a una autentica forma di imposizione nonché di tortura: «paragonabile alla violenza delle medioevali morti imposte sul rogo, col pretesto di liberare le anime dei condannati dalla morsa del diavolo».
In effetti si tratta di una presa di posizione talmente netta che la protagonista non esiterebbe un istante ad accompagnare l’amica Aurelia – malata di cancro – in Svizzera presso la clinica privata dove vendono la dignità di una morte assistita. La accompagnerebbe – se l’amica glielo chiedesse – pur sapendo del rischio di venir accusata di averne favorito il suicidio.
Indubbiamente l’eutanasia è il tema dominante del romanzo. Lo è nel senso del poter decidere, appunto, della propria morte. Sia che essa avvenga attraverso un atto suicida, con cui porre fine a un’esistenza non più sopportabile, sia mediante il semplice gesto dell’indossare la spilla di Anubi prima di cedere al sonno. Sempre di buona morte si tratta. E però, fra l’atto di uccidersi (da sola o assistita da qualcun altro) e il gesto di concedersi invece al dio Anubi, tramite la sua meravigliosa spilla, ce ne corre! Infatti, fra l’idea dell’uno e dell’altro si svolge il lungo “apprendistato” della protagonista di questo breve ma intenso romanzo di formazione.
Elena Carsi non ha paura dei morti. Anzi, sin da piccola, il pensiero della morte accompagna la sua vita solitaria. Avendo perso entrambi i genitori in un incidente stradale, ha per famiglia le prozie e il nonno paterno. Preferisce tenersi lontana dagli altri bambini. Passa intere giornate a costruire piramidi con i mattoncini Lego; a contare le Lire come fossero monete antiche; a coccolare biglie di vetro colorato come gioielli preziosi da portare sempre con sé, in una borsetta di pelle nera. Man mano inizia a pensare che le cose abbiano un’anima: la storia delle persone a cui esse sono appartenute. Giocando infatti con collane e bracciali della mamma, se li immagina indossati da lei; così come associa alla figura del padre i bellissimi libri illustrati con foto di antiche sculture e pitture. Da ogni loro oggetto sorgono immagini di quei genitori mai conosciuti. La loro assenza è una continua presenza che accompagna la sua infanzia e la prima giovinezza.
Non a caso, divenuta adulta, il suo mestiere consiste nel ridare vita agli oggetti antichi. Ѐ una restauratrice che di continuo avverte quanta distanza vi sia fra l’essere una semplice addetta a riattaccare i cocci e il diventare un artefice quasi divino che, resuscitando oggetti d’arte, riesce a vincere la morte. Quando poi – come spesso capita nelle autentiche storie d’amore allo stato nascente – le si offre l’occasione di acquistare una spilla Liberty (ritenuta tale pure da chi gliel’ha venduta) le sembra di aver trovato ciò che, senza saperlo, cercava. Le capita, insomma, di imbattersi per caso in quel che per carattere è destinata a incontrare.
Ѐ una spilla che ha del recondito e del misterioso; sprigiona il fascino di quel certo non so che a cui solo le cose antiche rimandano. Attrae, addirittura, proprio perché proviene da un cimitero. Soprattutto la fatalità delle circostanze – degli incredibili passaggi attraverso i quali un simile oggetto è giunto fino a lei – induce Elena a ritenere che quella spilla d’oro lavorata a sbalzo sia ormai il proprio gioiello: tanto superfluo quanto necessario. Perché vi alberga una sorta di anima, la cui malia la spinge a desiderarne la vicinanza e a non più separarsene. Come, del resto, avviene allorquando si incontra una persona capace di suscitare amore.
Solo di chi suscita amore – non già o non tanto di chi si dichiara innamorato – si ha desiderio di una profonda conoscenza: inesauribile, poiché infinito è il cammino per sondarne il mistero; per assaporarne l’anima che confini non ha.
Solo il pensiero che la spilla possa essere non novecentesca, bensì di un’epoca lontanissima, ingenera nella protagonista l’ardente desiderio di tenerla fra le mani per sentirne il fluido. Mentre ne tocca la perfetta levigatezza, come di porcellana purissima o di vetro soffiato, le pare quasi di percepire i segreti misteri in essa racchiusi. Nell’antico Egitto un simile gioiello, più che proteggere o guarire o scacciare la malasorte, aiutava chi lo avesse indosso al momento del trapasso. Gli risparmiava le sofferenze, donandogli una specie di eutanasia ante litteram. I defunti infatti, accompagnati dal dio Anubi – lo psicopompo, raffigurato con un corpo di uomo e la testa di sciacallo –, erano sottoposti alla psicostasia: la pesatura del cuore, onde venire accolti nel regno di Osiride. In fondo, secondo le connotazioni morali contenute nel Libro dei morti, merita la buona morte chi vi giunge con un cuore leggero quanto una piuma.
Paola Ottaviano, attraverso una narrazione realistica e fantasiosa – ricolma di personaggi scolpiti con rapidi tratti umanissimi e profondi –, avvince il lettore e lo sprona a riattingere conforto in una lontana sapienza che un poco rischiari l’oscuro presente. In cui tutto viene clinicizzato. Sicché la vita e la morte, ridotte nelle gabbie del pragmatico operativismo sbrigativo, sono solo dei protocolli da seguire secondo regole prestabilite che escludono, soprattutto, la plurimillenaria arte del vivere e del morire.