C’è un modo tutto italiano, con vaghe ascendenze bizantine, di passare una mano di vernice sulle polemiche, cambiando le parole sulle quali sono incentrate. Sostituendo quelle semplici con espressioni più roboanti, estremamente tecnicizzate, tali da sembrare che si parli di altre, più complicate questioni, inarrivabili per la mente dei comuni mortali e, tali, perciò, da scoraggiare l’avvicinarsi ad esse e l’impiantare nuove polemiche. L’opera viene spesso completata con l’introduzione di qualche sigla-acronimo che rende più misteriosa l’individuazione della materia di cui si tratta.
Tale sorte è toccata di recente all’obbligo dell’alternanza scuola-lavoro, contenuta nella cosiddetta Buona scuola, la “riforma” varata” all’epoca del governo Renzi. La questione sollevò molteplici e note polemiche. Ci fu chi vide nell’alternanza un modo per fornire manovalanza gratuita periodica alle imprese; chi ne contestò la validità e la coerenza con le finalità formative ed educative della scuola; chi vi ravvisò una sottrazione di tempo prezioso all’attività di studio; chi la lesse come un modo subdolo di assoggettare la formazione alla logica di impresa; chi, ritenendo incompatibili la velocità delle innovazioni tecnologiche con i tempi molto più lenti necessari allo studio, teorizzava che una solida istruzione scolastica di base renda di per sé adatti e capaci di affrontare qualsiasi tipo di lavoro in età più matura. Rifacendosi, in questo, anche ad una esperienza consolidatasi nel tempo.
Dalla parte dei favorevoli si è invece invocato l’avvicinamento della scuola al mondo del lavoro, anche come forma di contrasto alla dispersione per quegli studenti che sarebbero più portati per le attività operative; le maggiori possibilità di impiego per il futuro; l’aumento della responsabilità sociale delle imprese; lo sviluppo delle capacità di risolvere i problemi. Il gettare, in sostanza, un ponte tra scuola e realtà. Il che sta a dire che la scuola viene ritenuta avulsa dalla vita reale.
Sul piano dell’attuazione pratica, l’Unione degli Studenti ha denunciato che ad alcuni stagisti era stata assegnata la pulizia dei bagni o il volantinaggio. Una nota azienda di fast-food, avrebbe addirittura impiegato migliaia di studenti per pulire i tavoli e servire panini, il tutto senza sborsare un euro e in nome della loro formazione. Insomma una sostituzione di lavoro retribuito, sfruttamento sotto il ricatto della valutazione, mancato rimborso delle trasferte, scarso collegamento coi percorsi di studio. Qualcuno ha parlato di obbligo di corvée per un milione e mezzo di studenti all'anno.
Un dibattito vivace e ampio, dal quale, nel complesso, l’alternanza scuola-lavoro uscì circondata da vasta impopolarità e da molte ostilità. Destando imbarazzo in quei politici che dedicano più attenzione al consenso per rimanere sulla breccia che al merito dei problemi.
Che si fa, allora? Si spennella la vernice bizantina: con le Linee guida pubblicate con un decreto del settembre 2018, l’alternanza scuola lavoro diventa Percorsi per le competenze trasversali e l’Orientamento. Voilà! Pronto naturalmente l’acronimo con cui, circondato da un alone di mistero, sarà indicato nel linguaggio corrente: PCTO. C’è chi vede, nel cambio del nome, anche consistenti variazioni concettuali. Per esempio, abbiamo pescato sul web questa: «Si passa infatti da un’impostazione finalizzata a integrare l’apprendimento in aula con l’esperienza lavorativa e l’avvicinamento al mondo del lavoro, a un nuovo approccio basato su quelle competenze trasversali che permettono allo studente di raggiungere una maggiore consapevolezza sulle scelte inerenti il suo sviluppo personale». Una prosa tanto specialistica non dà, comunque, alcuna garanzia sul fatto che nell’attuazione pratica si cambi verso. E si corre il rischio che la ricerca della personale vocazione naufraghi ancora tra fotocopiatrici da azionare e tavolini da sgrassare.
Molti speravano che, almeno, fosse deposto il carattere obbligatorio (che autorizza la definizione di corvée) dell’alternanza, comunque la si chiami, e che fossero date solo indicazioni per gli istituti e i ragazzi che liberamente scegliessero questo percorso. A frustrare l’attesa è intervenuta, il 25 novembre 2019, la circolare sugli esami di Stato. Accanto a correzioni da molti auspicate sul tema di storia e sull’avvio del colloquio, in essa sfila, in pompa magna, nella sua nuova veste di “percorsi”, l’alternanza scuola lavoro. Lo svolgimento della quale, si ribadisce, è un requisito ineludibile per l’ammissione all’esame.
Tutta la faccenda soffre di un equivoco di fondo, accomunata in ciò a molte altre questioni che riguardano la scuola: la valutazione, i compiti a casa, l’utilizzo delle tecnologie didattiche e via discorrendo. L’equivoco consiste nel trattare ognuno di questi temi come “cosa in sé”, di portarle sul terreno della loro maggiore o minore validità “tecnica”. Per stabilire se funzionano o non funzionano. Tralasciando la domanda di fondo: funzionare rispetto a cosa? Ogni modo di trattare la questione, in realtà, risponde ad un modo di concepire la scuola (e dunque la società). Ed è dunque di questo che si dovrebbe discutere. Una volta stabilito quale concezione della scuola abbiamo, a quali valori di fondo debba formare (per esempio: alla cooperazione o alla competizione, al dialogo culturale che preservi anche l’identità o all’arroccamento identitario che respinge le altre, alla solidarietà o alla produttività fine a se stessa) la riposta alle singole questioni verranno da sole. L’obiezione alla quale un tale ragionamento viene immediatamente sottoposto è che esso è di impianto ideologico. Mentre, si aggiunge solitamente, le ideologie sono morte. Un modo seducente per garantire l’egemonia sulla società e sulla scuola di una ideologia, al contrario, ben viva e vegeta. E che si presenta come “superamento” delle ideologie: quella del mercato. Accettata la quale, scaturiscono tutti i corollari. Per esempio: l’ansia valutativa e di misurazione continua delle prestazioni degli alunni, che si tenta di insinuare nei docenti; la pressione a far entrare gli studenti nelle imprese e l’impresa nella scuola; il piglio manageriale che si vuole instillare nei dirigenti; la divinizzazione delle tecnologie didattiche a prescindere dai contenuti dell’insegnamento e dallo sviluppo delle capacità logiche dei ragazzi.
Messe così le cose, parte della confusione che regna nella scuola, in fondo, nasce da una circostanza positiva: che in essa ci sono ancora tanti insegnanti e tanti giovani che si ribellano alla prevalenza di una ideologia che si spaccia per antiideologica. Che la dialettica sia ancora viva è comunque una buona notizia.