La fine dell’estate 1931 prometteva grandi novità alla Firenze del pallone. Nata appena 5 anni prima per iniziativa del giovane marchese Luigi Ridolfi, la Fiorentina aveva bruciato le tappe e si apprestava a fare il suo esordio in Serie A con ambizioni di alta classifica. Il suo fondatore e presidente non aveva certo badato a spese: all’ossatura della squadra che aveva conquistato la promozione erano stati aggiunti acquisti di spessore, ma soprattutto era finalmente pronto il nuovo stadio, un gioiello avveniristico che preannunciava l’assalto all’élite calcistica nazionale e internazionale.
L’inaugurazione del “Giovanni Berta”
Rampollo di una storica casata nobiliare toscana, eroe di guerra, fascista della prima ora e già alto papavero del locale PNF, a Ridolfi non sfuggivano le potenzialità del fenomeno sportivo nel veicolare tra le masse i “valori” fascisti. Si era così iscritto a quella sorta di corsa tra gerarchi che stava determinando un po’ in tutta Italia il boom di tante squadre locali e, con esse, del calcio come nuovo fenomeno di massa. Il marchese era così preso che di lì a poco avrebbe messo mano al portafoglio per sostituirsi in parte alle pubbliche casse, quando queste non sembravano poter garantire il completamento dei lavori, e fu costretto a tal scopo a vendere il castello di famiglia (dove era nato il suo più illustre avo, Giovanni da Verrazzano) e una villa nel Chianti.
Quel 13 settembre 1931 lo Stadio “Giovanni Berta”, intitolato alla memoria di uno squadrista ad evidenziare, come si disse, “la natura ed il significato dei rapporti tra sport e metodo fascista”, era pronto per l’inaugurazione ufficiale con l’amichevole tra Fiorentina e Admira Vienna, una delle più forti squadre d’Europa. Pazienza se l’impianto era allora più simile a un cantiere a cielo aperto che a uno stadio, con i lavori del secondo lotto ben lungi dall’essere compiuti. A una settimana dal via del campionato, la parte già ultimata poteva bastare per celebrare con puntualità littoria l’ingresso di Firenze nel calcio che conta.
Per le cronache dell’epoca, ad impreziosire il prepartita furono una medaglia commemorativa, il pallone lanciato da un aeroplano, e il saluto romano in direzione dell’unica tribuna praticabile, affollata da 12.000 spettatori tra cui un buon numero di uomini di spicco del regime. Prese dall’entusiasmo, alle cronache era sfuggito solo un piccolo dettaglio. Che per ironia della sorte sarebbe stato l’unico dettaglio della giornata a fare storia. Una foto lo ha preservato.
Il mancato saluto di Bruno Neri
Il sincronismo di 15 braccia destre alzate interrotto da un corpo che resta immobile con le mani lungo i fianchi. Un attimo dopo tutti si concentrano sull’inizio della partita e l’incidente, come da prassi in questi casi, scivola nell’indifferenza. I gerarchi che gli siedono vicino evitano di incrociare lo sguardo rabbuiato del marchese almeno fino al gol con cui Pedro Petrone, colpo di mercato e futuro capocannoniere del campionato, assicura il successo sugli austriaci.
Ma chi è il ribelle che in un colpo solo ha coperto d’imbarazzo i compagni di squadra, il presidente e i gerarchi presenti allo stadio? Si chiama Bruno Neri, non ha ancora compiuto i 21 anni e a dispetto della giovane età è una delle colonne della squadra, grazie a tenacia e personalità che ne fanno un mediano molto promettente. Era arrivato a Firenze due anni prima, pochi mesi dopo le elezioni plebiscitarie del 1929 che “normalizzavano” il regime fascista mandando in soffitta la sovranità popolare. Al Ridolfi quel ragazzino era costato 10.000 lire, ma il marchese fin lì non si era certo pentito dell’investimento: Bruno era stato uno dei leader della recente cavalcata vittoriosa in serie B, conquistando a suon di prestazioni la chance di misurarsi nella massima serie. Quel gesto mancato potrebbe costargli caro, visti i tempi e le inclinazioni del datore di lavoro. Denota allo stesso tempo incoscienza e riflessione, in anni in cui gli sportivi eseguivano il saluto romano quasi automaticamente, senza porsi troppe domande. Bruno Neri evidentemente quelle domande se le è poste, e non ha trovato che una risposta possibile: la libertà non è sacrificabile sull’altare della carriera.
Non si conoscono gli eventuali provvedimenti societari successivi a quel braccio abbassato. Quel che si conosce è la carriera successiva di Neri: per altre cinque stagioni perno della Fiorentina di Ridolfi, che staziona nelle zone di alta classifica e fa persino il suo esordio in una competizione europea. Poi ancora Serie A con Lucchese e Torino (negli anni in cui sotto la Mole si stanno gettando le basi per la costruzione della squadra italiana più forte di tutti i tempi), e persino la soddisfazione di tre presenze nella Nazionale di Vittorio Pozzo, quella che in quattro anni porta a casa due Mondiali ed un oro olimpico. Poi il ritiro, arrivato piuttosto presto come per tutti gli uomini di fatica, e l’acquisto di un’officina meccanica.
Con la maglia della nazionale italiana Bruno Neri gioca tre partite, tra il 1936 e il 1937Un falso storico?
In tempi di revisionismo strisciante e post-verità galoppante, si è fatto strada il dubbio sull’attendibilità della foto. Possibile che un atto simile venisse ignorato da Ridolfi e da tutto l’establishment, tanto da consentire a Neri di proseguire senza intoppi, in viola prima e ancora più in alto poi, una più che dignitosa carriera? E perché l’astensione dal saluto non fu mai più ripetuta, né in incontri di routine né in occasioni importanti, come potevano essere le partite in maglia azzurra? A ben pensarci all’epoca non c’erano telecamere a vivisezionare da più angolazioni qualunque cosa accada su un campo di calcio, Neri avrebbe potuto abbassare la mano una frazione di secondo prima degli altri per creare inconsapevolmente un falso storico. Poi c’è la faccenda di un’ulteriore amichevole inaugurale, una sorta di pre-collaudo avvenuto tre giorni prima del match con i viennesi e vinto 6-0 contro il poco quotato Montevarchi: per diverse fonti, l’immagine si riferisce a quella circostanza, ed avrebbe dunque una “portata sovversiva” molto inferiore.
L’eremo di Gamogna, nel territorio di Marradi, nei pressi del quale Bruno Neri troverà la morteIl calciatore partigiano
Di certo il diretto interessato non potrà mai ricostruire la vicenda. Il 10 luglio 1944 due uomini avanzano armati di mitra su un crinale dell’appennino tosco-romagnolo. Sono “Nico” e “Berni”, comandante e vice-comandante della Brigata Ravenna. Siamo nei pressi della Linea Gotica, il gruppo sta perlustrando la zona in vista di un aviolancio di armi e alimenti da parte delle forze alleate. I due capi fanno parte di un’organizzazione che è riuscita a stabilire un collegamento tra truppe americane e formazioni partigiane, predisponendo rifornimenti di grande importanza strategica. Giunti vicino l’eremo di Gamogna, Nico e Berni incrociano un gruppo di soldati tedeschi. Lo scontro a fuoco che ne segue li vede entrambi restare sul terreno. Prima di aderire alla Resistenza erano due amici faentini, uno cestista, l’altro calciatore. Si chiamavano Vittorio Bellenghi e Bruno Neri.
Da quel momento nessuno potrà sollevare dubbi sul contributo di Bruno Neri alla lotta per la libertà. Che per noi avrà sempre inizio con quel folle e libero mancato gesto, al centro dello stadio di Firenze.