James Joyce riteneva che nella penna di uno scrittore c’è un solo libro e anche quando se ne scrivono diversi si tratta sempre della medesima opera più o meno trasformata. E aveva ragione: la tematica di uno scrittore non può che essere unitaria, pur sviluppandosi a seguito delle sollecitazioni legate alle trasformazioni della realtà sociale e della storia. I “temi” infatti non si inventano: sono un prodotto della realtà esperienziale e pertanto, a differenza degli argomenti che possono essere d’occasione e variare da un testo all’altro, sono sempre i medesimi.
Dario Leone in questo suo nuovo saggio approfondisce alcuni temi già discussi e, specificamente, si sofferma su quell’illiberale, gregario, fondamentalista stile di vita che educa all’apparenza più che alla sostanza, accorda udienza alle espressioni dell’homo insipiens, promuove profili sociali distanti dalla riflessione critica quanto versati al disincanto politico, all’analfabetismo etico, al dionisiaco scomposto e generalizzato, all’invadenza delle esperienze mediate. Detto altrimenti: il protagonista di queste pagine è il soggetto immaturo nel proprio regime psichico, duttile e malleabile fino all’impersonalità, lontano da dubbi e inquietudini e, quindi, incapace di autodeterminarsi perché ha abdicato (o è stato progressivamente indotto ad abdicare) al ruolo di attore e decisore dei processi che regolano la sua esistenza (p.13).
Insomma, l’Autore continua a interrogarsi sulle criticità del nostro tempo instabile e omologato al dettato di un potere che ha bisogno per espandersi e dilagare precisamente della sedentarietà del pensiero e della disgregazione di efficienti organismi di azione collettiva. In queste pagine, in cui indugia sugli esiti cui conduce l’impoverimento (l’assenza?) del pensiero meditante e della progettualità sociale, suggerisce di diffidare di ciò che è solo contabile e misurabile e di prendere le distanze dagli scenari che imbavagliano le coscienze e i movimenti di orientamento ideale.
In tali contesti, va da sé, scompare la persona, il soggetto politico, l’homo civicus, l’essere parlante per dare strada all’uomo privato, insignificante pedina di una minoranza sociale dominante che mette all’angolo la democrazia. Le conferme al proposito non mancano. Lo prova, per esempio, la versatilità e la flessibilità con cui gli individui rimodellano le proprie opinioni sulla base di segnali o conformismi sociali; lo prova il nomadismo culturale che dissipa e disperde identità, appartenenze, coerenze normative; lo prova il collasso della progettualità sociale e della convivenza societaria; lo prova il progressivo sfilacciamento dei processi e dei contenuti della socializzazione (ovvero l’apprendimento delle regole e delle norme sociali); lo prova la categoria del soggetto-monade, privo di dimore empiriche e metafisiche, «riluttante a ogni responsabilità etica, culturale e politica» (p.18); lo prova, vale ripeterlo, il cedimento dell’uomo come attore sociale. Insomma, lo provano la resa passiva alle asimmetrie del potere e la cifra dei soggetti nei quali l’etica e la ragione hanno sempre meno voce.
In queste pagine l’invito forte e chiaro che Dario Leone rivolge all’individuo è riappropriarsi della “parola” se, ovviamente, intende correggere il disorientamento, le incoerenze, le diseguaglianze dell’oggi e contrastare quella logica mercantile e finanziaria bulimica e aggressiva che ha bisogno per crescere e proliferare precisamente di topografie sociali devitalizzate, subordinate, inabili a ricostruire i luoghi di rappresentanza dei bisogni dei cittadini. Di qui la sua insistenza su alcuni temi-chiave particolarmente traballanti nell’attuale fase storica: il primo dei quali riguarda il tramonto dei tracciati normativi garantiti dalla socializzazione che ha aperto la strada all’anomia, ovvero al rischio che la società perda il suo significato di idea, patto, rappresentazione sociale.
Non servono particolari alchimie concettuali per segnalare che l’assenza (o comunque la carenza) di regole condivise compromette la stessa produzione e riproduzione sociale; fa deragliare gli articoli altruistici e costruttivi della socialità; precarizza i confini della vita civile, politica e relazionale; rende tascabili i rapporti interpersonali nonché le relazioni intime e affettive. Insomma, torno a sottolinearlo, nell’attuale fase storica crescono con cifra esponenziale le fisionomie sociali incapaci sia di tutelare il piano della convivenza civile, sia di tenere in rotta le forme di mediazione sociale. Pertanto, il pericolo che sta correndo la nostra società è altissimo: potrebbe implodere se non oppone ostacoli alle ideologie virali e alle derive che la stanno vistosamente de-regolando.
Questo libro asciutto, compatto, attraversato da una profonda etica laica non si limita, tuttavia, a segnalare e commentare i rischi sulla tenuta della nostra realtà sociale, propone parallelamente una via d’uscita a tale eventualità. Per contrastare la dittatura del tempo presente –suggerisce- bisogna impegnarsi a far rinascere la vita collettiva, la comunità solidale, l’agorà. È un discorso utopico quello che propone Dario Leone? Qualcuno potrebbe ritenerlo tale. Personalmente non lo credo. In ogni caso le utopie offrono un significato alla vita. Se poi servono ad opporsi al ruvido disincanto collettivo in cui stiamo affogando, ben vengano: costituiscono un salvifico, generoso salvagente.