di MASSIMO PALLADINI
A distanza di pochi mesi dalla scomparsa di Ettore Spalletti, Pescara perde un altro grande artista: sabato, venticinque gennaio, è scomparso Franco Summa. Protagonista del dibattito nazionale e non solo, come testimonia, da ultima, un’importante pubblicazione negli USA sull'arte ambientale e partecipata nella quale il suo ruolo è presentato come centrale, Franco era profondamente legato alla sua città, nella quale ha vissuto, insegnato, ideato e realizzato opere ed interventi.
Voglio qui portare in suo ricordo alcune testimonianze che mi è capitato di vivere con lui da quando lo conobbi, ancora ragazzi; in esse, anche al di fuori di una disamina critica organica, possono riconoscersi alcuni suoi motivi costanti e peculiari.
C’erano diversi anni tra noi ma facemmo a tempo ad incontraci al Liceo, fraternizzando durante il tragitto autotranviario che ci conduceva in centro dalla zona nord della città. Grandi discussioni di arte, qualche amore impossibile e molte riflessioni su Pescara che in quegli anni conosceva il suo boom edilizio. Franco dipingeva già e si appassionava allo sviluppo urbano di cui vedeva le storture che denunciò in una serie di articoli di stampa; elaborava, in essi, una sorta di visione ricavata, con qualche ingenua incoscienza, dalle letture del tempo: soprattutto Zevi, Mumford, Gideon ed io ebbi l’opportunità di discuterne con lui come contraddittore, mentre la metteva a punto. Già allora egli cercava il valore negli altri e, se credeva di riconoscerlo, (come poi ha fatto nella sua carriera di docente e vero e proprio maestro) ti faceva partecipe delle sue cose. Così entrai in contatto con la cerchia degli artisti innovatori suoi amici: tra gli altri, Del Greco, Di Blasio, Spalletti e, per essi, mi capitò di scrivere, incoraggiato da Franco, a sostegno della loro dura emersione rispetto all’arretrato quadro del gusto corrente. È questo il tempo degli studi universitari: una puntata ad Architettura, suo primo amore, e poi il corso di Lettere a Roma con Carlo Giulio Argan, che resterà per tanto tempo la sua guida critica e della cui lezione si sentì a lungo il peso, anche ingombrante, nei suoi interventi nel corso delle discussioni tra noi.
Erano i tempi di Araldica, una delle prime opere, in cui lavorava sui simboli, ma con un’ ottica diversa da quella Pop, concentrata piuttosto sulla ricerca di equilibrio grafico; poi, poco dopo, ci fu Spazio di relazioni. Qui Summa comincia radicalmente un cammino suo: una struttura metallica, attraversabile, sorreggeva pannelli quadrati, incardinati come sportelli e giocati su contrasti di forme e cromie impresse o riportate; la struttura costituiva un “ambiente” dentro il quale il fruitore poteva modificare la scena collocando a piacimento le quinte mobili.
Ricordo che a Pescara venne Paolo Portoghesi, noto architetto e storico dell’architettura, mio professore a Roma; così organizzammo una visita allo studio di Franco e lui, intrigato dall’opera, vi si addentrò e cominciò a schiaffeggiare i pannelli, riguadagnando poi la distanza per apprezzare il movimento.
Sorridemmo: il professore aveva introdotto forse un’innovazione, una componente cinetica; ma non aveva colto il senso vero dell’opera, che stava nell’invito a partecipare, a conformare lo spazio con un azione personale, dentro un arco di possibilità previsto. Cominciava la ricerca di condivisione col pubblico/ cittadinanza che ritroviamo in tanti interventi: dalla catasta di mattoni colorati che Franco invitò a formare dentro la Pineta, ai mille “NO” disegnati dai tanti convenuti a piazza Salotto, a Pescara, in occasione del Referendum sul divorzio, alle orme di mano degli abitanti impresse, come in un graffito rupestre, all’interno di un’antica neviera di paese, per citarne solo alcuni.
In quei secondi anni sessanta prese forma un altro filone del Maestro: quello che parte dalla concettualizzazione del “generatore di immagini”. Eravamo a discutere di una serie di opere affini a Spazio di relazione e per terra, nello studio, erano poggiate alcune sagome, quadrati e cerchi, in attesa del montaggio; su di esse Franco poggiò un cilindro di lamina d’acciaio che serviva per un altro impegno. Guardandoci dentro, le forme geometriche alla base venivano come squagliate, generando geometrie complesse, integrate tuttavia alla matrice euclidea. «Il contrario dell’anamorfosi cilindrica!» A Franco tornarono in mente i virtuosismi dei pittori manieristi, quelle macchie di colore apparentemente casuali che un cilindro riflettente, messo in un dato punto, ricomponeva in immagine coerente; qui avveniva il contrario, la matrice geometrica di forma predefinita generava elaborate evoluzioni. E una serie di opere molto popolare ne nacque, anche perché se ne editarono serie grafiche di successo e spesso queste immagini comparvero a pavimentare piazzette storiche o a rivestire antiche facciate.
Ci perdemmo un po’ di vista quando stetti fuori Pescara per gli studi; il ’68 da una parte, l’assunzione dell’insegnamento dall’altra; facemmo in tempo a partecipare agli incontri internazionali d’ arte a Verucchio nell'entroterra riminese (i futuri incontri del Centro Pio Manzù), dove sorridemmo dell’altissimo, spettrale Emilio Vedova, del profumatissimo Cesare Brandi o dei fratelli Fagiolo Dall’Arco, ballerini provetti. Però commentavamo ogni fase importante; come per i suoi Trenta ritratti e una bandiera, una rassegna di volti e di pose sul modello della notissima foto del Che Guevara «che raccontavano un po’ di storia sociale di Pescara negli anni del boom» come ricorda il suo amico ed efficace critico Renato Minore; o per i primi esperimenti di arte urbana in cui coinvolgeva gli studenti: le sagome di gambe per passanti anonimi ed alienati che attraversarono il ponte sul Pescara, applicate con la tecnica delle silhouettes ai parapetti, le grandi orme sulla Riviera di Montesilvano per le quali non si badò ad autorizzazioni e disciplina del traffico.
Intanto, con i riconoscimenti (come la partecipazione a tre Biennali di Venezia, tra cui quella in cui l’opera di Franco fu inserita da Alberto Sordi in una scena memorabile del suo Le vacanze intelligenti) venivano contatti importanti: come Ugo La Pietra, Alessandro Mendini e le sue riviste, Pierre Restany, Renato Barilli, Enrico Crispolti Germano Gelant e poi in seguito Oriol Bohigas e Franco Purini.
La riflessione di Franco si allargò alle questioni dell’identità urbana che è memoria individuale e memoria della città: lo fece in una serie di disegni, di collage, di tecniche miste di piccolo formato raccolti in libro d’artista; o, all’opposto, con grandi segni e/o azioni urbane. Tra queste ci fu Histoire d’O, lo spettacolare cerchio giallo sulla facciata di un palazzo diruto a Via delle Caserme, che, in ragione di un crollo lungo la manica penale, era visibile anche dal fiume, riportando nel flusso ininterrotto di uno sviluppo immemore della città la sua parte più antica: con la forza di un segnale di geometria e scala inconsueti, col colore dei carcerati e con l’evocazione di un antico postribolo. Il colore giallo fu adottato anche per la tuta con la quale realizzò Martyr, titanico dipinto sulla storia di Pescara che copriva tutta l’area liberata dal crollo della stecca, proprio di fronte a casa D’Annunzio. Spazzoloni da scopa, secchiate, colore sparso con braccia e gambe; ma alla fine dall’impalcato dell’asse attrezzato sovrastante (ancora in costruzione) si leggeva un grande racconto pieno di riferimenti. Il “martirio”, tuttavia, non si contentava dell’opera conclusa: essa venne suddivisa in particelle da 20x20cm di lato, caricate su un aereo leggero e disperse sulla città, previo esplicito invito a raccoglierli, a farli propri o a radunarli per una difficile ricomposizione. Era evidente il riferimento al volo dannunziano su Vienna (di cui ricorreva una specie di anniversario a cifre invertite: 1918-1981); ma si lesse soprattutto questa pioggia di colori, con la quale l’artista restituiva alla città la sua storia, la chiamava a custodirla, a reinventarla con l’arte, accogliendola come fattore della sua trasformazione. Continuò la sfida della grande scala, faticosa, con pochissimo riscontro di mercato, ma col sostegno dei suoi allievi (bravi in numero crescente) e l’interesse di alcune istituzioni. Tra queste opere cito soltanto Un arcobaleno in fondo alla via a Città Sant’Angelo; quest’opera è di poco precedente (1975) e fu realizzata collettivamente, dando corpo festosamente ad un evento di grande impatto, capace di determinare una reazione non convenzionale con quel pregiato centro storico e di revocarne in dubbio la sonnolenta decadenza, fino ad allora data per scontata. L’intervento, inoltre, si segnala perché ricevette un’esplicita opposizione politica reazionaria; d’altro canto, nonostante gli apprezzamenti, non gli si dette seguito permanente.
Molti e notevoli furono gli interventi attraverso i quali Franco realizzò la propria visione di arte urbana come istanza progettuale. Pur nella distanza che gli impegni del lavoro determinavano, spesso ne parlavamo tra noi. Esprimeva sempre il suo carattere determinato, le sue convinzioni nette, ma accettava per amicizia vera, con un sorriso, le mie obiezioni. Discutevamo della congruità con la forma urbana della bellissima Porta del mare, che riuscì a realizzare allo sbocco di corso Umberto sulla Riviera di Pescara; e ricordava sempre che occasione ne fu l’accendersi della crisi jugoslava, per cui essa si poneva come un segnale di accoglienza e di fraternità tra le due sponde; o commentavamo anche le disavventure, come nel caso della infelice collaborazione con i tecnici comunali su piazza San Francesco.
Il sodalizio affettivo ed intellettuale con la compagna della sua vita, Adina Riga, introdusse e rafforzò alcuni tra i suoi motivi divenuti costanti: la ricerca e il nuovo disegno di oggetti legati alla nostra tradizione, il lavoro su forme archetipiche inerenti le rappresentazioni del sesso, della vita, della morte, un’attenzione per le teorie di costruzione della città. La forza di Franco è stata anche nel saper vivere coerentemente e creativamente le fasi della sua vita; anche l’ultima, per lui dolorosa, della mancanza di Adina. All’arte è sempre tornato, alla scuola, alla storia. Da qualche anno chiedeva agli studiosi di ricostruire quel tratto di storia recente che dagli anni ’60 aveva visto Pescara tra le protagoniste del rinnovamento artistico nazionale; spero e credo che questo suo desiderio non cadrà nel vuoto ed alcuni primi raggiungimenti storiografici già si registrano.
Franco instancabilmente ha parlato agli architetti, ai graffitari, a chi agisce sull’immagine di città; ed anche alle facoltà di Architettura, ai musei, ai luoghi della formazione presso i quali ha tenuto lezioni, diretto stages, partecipato a festival.
Ricordo negli ultimi incontri una polemica, su cui convenivamo, rispetto a una certa mercificazione della Street Art, che la relegava in un ambito ambiguo, repertorio volutamente marginale dal quale estrarre il singolo oggetto da valorizzare, mentre si toglieva spazio e ruolo, invece, agli interventi di Arte Urbana, concepiti con l’intenzionalità (e la capacità) di individuare e svelare relazioni spaziali, stabilire connessioni, partecipare alla configurazione intenzionale dello spazio urbano.
Infine, debbo citare la generosa partecipazione di Franco all’incontro, organizzato al Museo Cascella recentemente riaperto (e poi replicato al Circolo Aternino), per il centenario della Bauhaus, che Franco tanto aveva studiato ed amato. L’evento, anche senza l’apporto dell’Università e dell’Ordine degli Architetti, ha avuto un inaspettato successo, con un’affluenza persino superiore alla capienza della sala. E la sua flebile voce, il suo fiato sofferente e bisognoso di pause, hanno ripercorso la lezione di Itten e di Klee, li hanno collocati nella prospettiva delle sue ricerche, integrandosi garbatamente alle mie considerazioni sull’architettura.
Ha lasciato le sue carte a posto, Franco; ha voluto una Fondazione per la loro custodia e valorizzazione, che siano strumento per la ricerca dei giovani; la sua casa ne diverrà galleria aperta, come ha annunciato in chiusura della sua ultima bella mostra presso la Maison des Arts, della Fondazione PescarAbruzzo;
Ma ancora ne giravano, di carte da completare, per lo studio: idee, abbozzi, i dettagli del suo ultimo progetto, dedicato al mare.
Franco era l’ottavo figlio di un casellante delle ferrovie, pescatore costante ed appassionato; dall’abitazione a via Cadorna, che avevano costruito dopo aver vissuto in un casello giallo-ferrovia a Portanuova, il mare non era distante e sulla spiaggia tenevano la barca da pesca. Franco la riverniciava ogni anno, tra tradizione ed innovazione. Lavorare a queste ultime carte sarà stato per lui quasi un ritorno.
Ciao Franco. Mancherai ai tuoi amici, alla tua città, ad un mondo dell’arte che avrebbe sempre più bisogno di presenze come la tua.