La legittima aspirazione a liberarsi di retaggi ingiusti e vessatori e di instaurare rispetto per tutti gli esseri umani esige l'esercizio del pensiero critico verso il passato e il presente, evitando che esso si tramuti in controllo ossessivo e censorio delle parole altrui.
di NANDO CIANCI
Secoli di oppressione, di discriminazione, di etnie trattate come “razze” inferiori e schiavizzate, di colonialismi, di dittature, di assolutismi e di religioni brandite come armi di distruzione, di sessismo e di negazioni di diritti civili hanno creato la legittima aspirazione a voltare pagina nella relazione tra uomini, popoli, culture. E a sbarazzarsi dei concetti e delle espressioni linguistiche che li esprimono. Per rispetto a chi ne è stato e ne è concretamente vittima. Non a caso la polemica più rovente contro il politicamente corretto – locuzione con la quale oggi molti vorrebbero esprimere quest’ansia liberatoria – trova generalmente casa negli ambienti più retrivi e, come si diceva una volta, reazionari.
Ma quando si gioca con le etichette collocandole or qui or là negli schieramenti politici o ideologici si rischia sempre di trasformare una spinta giusta in una rigida imbalsamazione conformistica.
Può accadere, per esempio, di illudersi che, cancellando le parole che le esprimono, si possano eliminare d’incanto le corrispondenti sedimentazioni depositatesi nei secoli nella società e negli individui. O che l’ansia di eliminazione di concetti e parole, pur nascendo dal dolore, finisca con il trasformarsi in ossessione. Specie quando al politicamente corretto si accompagna la cosiddetta cancel culture, con l’idea che debba essere cancellato ogni forma – artistica, di pensiero, storiografica, ecc. – che contenga in sé (o si presuma contenere) allusioni, riferimenti, contenuti espliciti (o che sembrano tali) che si richiamano a discriminazioni razziali, sessiste e di vario genere. Per cui si va alla caccia dei brani letterari che resistono da decine di secoli per espungerne le parti che potrebbero offendere altre religioni, etnie, stili e orientamenti di vita, specie se relativi a minoranze. Si seppellisce la gigantesca complessità di Dante sotto l’accusa – grottesca se formulata ai tempi di allora dal mondo di oggi – di essere “islamofobo, antisemita e sessista”. O si oscura il genio di Shakespeare in quanto “razzista e colonialista”. Dando luogo alle conseguenti richieste di espulsioni delle loro opere, o di parti di esse, da scuole, università, luoghi di crescita e formazione. Con una contraddizione in termini: studiare il cammino dell’umanità e quel che essa è diventata negando il passato, cioè il cammino stesso.
Quello di esprimersi con rispetto verso popoli e culture – ineccepibile al di là delle deformazioni ossessive – è un problema, sul quale torneremo, che viene spesso esteso anche al modo di rivolgersi tra le persone, confondendo la cattiva educazione con la violazione del politicamente corretto. In realtà insultare con epiteti ispirati al mondo animale questa o a quella persona, nella sfera pubblica o privata, non è una violazione del politicamente corretto; è solo zoticaggine e oscuramento del senso di appartenenza alla comune specie che dovrebbe consigliare rispetto umano verso tutti. Così come ingiuriare o, ancor peggio, aggredire fisicamente persone portatrici di altre opinioni o modi di vita non è violazione del politicamente corretto, ma assenza di consapevolezza etica, e qui veramente politica, del diritto individuale a cercare la realizzazione della propria vita – in un contesto che accomuna i membri della società in alcuni irrinunciabili valori di fondo – con la libera espressione di individualità, culture, modi di vita. E certamente chi è dedito alla pratica della malacreanza personale, della tracotanza suprematista e dell’imposizione del proprio modo di vivere sugli altri dà una consistente mano ai fautori dell’esasperato politicamente corretto.
Agli uni e agli altri va ricordato che la storia conosce comunque contrasti e conflitti. Che l’uomo si nutre metaforicamente tanto di ghiande che di ambrosia divina. Per cui conseguire uno stadio di civiltà in cui il conflitto, per quanto aspro, rifugga sempre dalla violenza e dall’umiliazione di popoli e persone è diventata una necessità vitale per un mondo complesso e intercomunicante come quello odierno. Ma retroflettere il desiderio di giustizia e civiltà cancellando il passato costituisce, sia pur con intento opposto, un’operazione come quella descritta da Orwel in 1984, che vedeva il Ministero della verità mandare al macero i quotidiani di vecchia data e ristamparne di nuovi, con la stessa data, per mettere il passato al corrente, cioè riscriverlo in funzione della presente ideologia dominante. Insomma, l’esigenza di garantire, attraverso il politicamente corretto, libertà e giustizia, può ottenere – suo malgrado e paradossalmente – l’effetto che vorrebbe combattere: inibire il senso critico di individui e comunità, smorzare il libero pensiero, esercitare un pesante controllo su tutti e su ciascuno. Non consola più di tanto il fatto che ciò venga prodotto da regimi “democratici”, invece che da totalitarismi come quello orwelliano.
Tutto ciò non inficia, naturalmente, l’esigenza di costruire una civiltà che metta al bando tutte le forme e i modi con cui singoli e comunità hanno umiliato i loro simili. E neanche può essere trascurato l’assunto che, quando ai concetti si tolgono le parole per esprimerli, un qualche danno essi lo subiscono. Il problema diventa, allora, di passare attraverso il riconoscimento del paradosso cui ci condanniamo con l’ansia di negare quel che siamo stati e in parte siamo. Vale per il politicamente corretto, vale per la cancel culture. Vale anche per il cosiddetto buonismo, partecipe anch’esso di una doppia natura che lo espone ad essere strattonato da destra e da sinistra. Che viene da molti inteso come ottusa cecità di fronte al male che circola nel mondo o, più sottilmente, come negazione dell’eraclitea forza del pólemos nel muovere il mondo. Ma che si può anche leggere come la volontà di cercare nelle situazioni date tutti i punti di appoggio per ribaltare criticità negative gravide di aggressività e violenza per costruire percorsi diversamente improntati e solidali. Come il far leva sulla parte migliore che ogni essere umano mostra o nasconde da qualche parte.Occorrerebbe, forse, fare alcune distinzioni per mettere un po’ d’ordine (per modo di dire) in questo groviglio. Discernere, ad esempio il politicamente corretto dalla semplice, per quanto declinante, buona educazione, non considerandoli sinonimi: vi sono, ad esempio, tra i mercanti d’armi persone dai modi raffinatissimi, ma che non sono per nulla politicamente corretti, dal momento che le loro fortune poggiano sui massacri di esseri umani causati dai prodotti che commerciano. Ancora; non fare del politicamente corretto un mezzo per l’estinzione del senso critico. Non fare della cancel culture un modo per inibire l’analisi critica della storia che contestualizza gli onori tributati a personaggi e creazioni come manifestazioni della cultura dominante di un’epoca e delle forze sociali ed istituzioni pubbliche che la incarnavano. Il che aiuta a capire molto di più che il bollare Cristoforo Colombo come pioniere del colonialismo e distruggerne le statue per cancellarne la memoria. E a riconoscere quel che di universale c’è nell’opera di grandi artisti e pensatori. Non fare, infine, del buonismo il certificato di assoluzione per manigoldi e pericoli pubblici, per quanto camuffati con il doppiopetto (meglio ancora rinunciare questa definizione, ormai divenuta non solo ambigua, ma anche sinonimo di maschera ipocrita della cattiveria).
Insomma: accrescere, non depauperare la cultura di massa. Perché quando le sacrosante esigenze di “raddrizzare” il mondo assumono le incoerenti vesti di ossessioni censorie, in un mondo in cui siamo tutti connessi attimo per attimo, si corre il rischio che si affermi un grande fratello di massa, che può essere ancor più terrorizzante di quello centrale e dispotico. O, meglio, si attua, la profezia orwelliana nella sostituzione della segnalazione e della delazione con il linciaggio pubblico. Sì che il grande fratello potrebbe nascondersi dietro ogni telefonino in azione che incrociamo e potrebbe starci riprendendo o registrando la voce. Magari in mano al passante distratto del quale neanche ci si accorge. O fra le mani dell’avventore che sta consumando il caffè al bar accanto a noi. O con il quale sta giocano il passeggero seduto in treno nella fila parallela alla nostra. Per non parlare di quello nascosto sotto il banco che sta riprendendo insegnanti e compagni. Per cogliere, ognuno di questi ipotetici (e spesso inconsapevoli) censori, un’espressione infelice, un comportamento incontrollato, una eccessiva stravaganza con cui dare il via al linciaggio mediatico che si abbatterà sulla vita del malcapitato protagonista della ripresa. Spesso indipendentemente dalla effettiva gravità di quel che si egli ha detto o fatto. Ma comunque accostabile ad una violazione del politicamente corretto.
Nessuna “buonistica” assoluzione va riservata a chi offende nel profondo i propri simili ed esercita violenze psicologiche o fisiche. Ma una società democratica ed una cultura avanzata debbono vigilare affinché non prenda piede la tendenza moralistico-forcaiola di andare a caccia ovunque – nella realtà, nella finzione, nella letteratura, nell’arte – di quello che un inafferrabile canone classifica come politicamente scorretto. Altrimenti costruiremo un mondo in cui l’atmosfera unificante sarà data dalla paranoia.
La foto dell'opera di Domenico di Michelino (1417-1491), La Divina Commedia di Dante, risulta di pubblico dominio (flickr.com;creativecommons.org CC BY NC 2.0).