di NANDO CIANCI
L’immagine positiva – rispetto a quella attuale – che si ha della politica italiana dalla Liberazione alla fine della cosiddetta Prima Repubblica risente certamente della retorica che sempre gli uomini costruiscono quando si aggregano intorno ad idee che, per essere unificanti, devono necessariamente essere alte. Sì che, quando la realtà non si rivela, per così dire, all’altezza di quelle idee (come è avvenuto con il socialismo, il liberalismo e altre correnti politico-culturali) la distanza fra i due livelli viene colmata con la retorica. Quella che riveste di broccato la cruda nudezza dei fatti per conferire loro nobiltà. O di stracci per farla sembrare peggiore.
La retorica, non solo in politica, spesso annebbia la visione del passato, rendendolo più bello del presente, perpetuando quel mito di una passata età dell’oro, da rimpiangere e a cui tornare, che accompagna l’umanità sin da quando la civiltà ha mosso i primi passi.
Tuttavia, alcune delle caratteristiche dell’età politica nata dalla fine della seconda guerra mondiale, che svolgevano una funzione positiva, sono effettivamente scomparse.
Le idee che avevano sorrette la Resistenza e la Liberazione anche nel passato non trovavano sempre attuazione pratica all’interno dei partiti politici. Questo si sa. La loro vita conosceva lotte fratricide, agguati e metaforiche pugnalate. Essi erano comunque luoghi di discussione e partecipazione, con dialettiche complesse, anche se spesso il potere del centro si rivelava superiore a quello della base. Ma quest’ultima pensava, parlava, dibatteva. Contava non in base alle sue risposte a sondaggi, ma per quel che riusciva a muovere. E, anche per l’azione dei sindacati, vaste masse popolari, in cui vi erano anche tante persone senza partito, erano capaci di scendere in piazza per obiettivi generali della società. Non per liberarsi da una mascherina anticontagio, né perché vedeva in pericolo la possibilità di bere liberamente una birra in compagnia nei modi, nelle forme e nei luoghi scelti a proprio insindacabile giudizio. Insindacabile anche da esigenze collettive più importanti. Moltitudini scendevano in piazza per la riforma sanitaria o della scuola, per rispondere alle stragi terroristiche con un muro invalicabile di popolo. Per frustrare le mire di petrolieri che, pur di impinguare i loro profitti, volevano arraffare territori sconvolgendone l’equilibrio ambientale e compromettendo futuri diversi sviluppi. Per rinunciare ad effimeri tornaconti per la propria generazione in vista di miglioramenti più solidi per i propri figli. Per il futuro. Operai del Nord scendevano in piazza perché gli investimenti produttivi si indirizzassero verso il Sud e creassero lavoro per fratelli lontani e sconosciuti. Perché il Paese fosse più equilibrato e giusto. Tutto, insomma, fuorché stare con le mani in mano ad aspettare un’uscita brillante del proprio leader per applaudirlo ed osannarlo sui social, o una frase non gradita del leader avverso per crocifiggerlo mediaticamente. A fare, cioè, puramente e semplicemente il tifoso. Il quale può avere una sua dignità e ha certamente il diritto di esistere, ma è un cittadino parziale, che esercita la cittadinanza in modo assai limitato.
Altrettanto vero, al netto delle mitizzazioni, è che la caratura morale, politica, culturale di molti leader era gigantesca rispetto alla stragrande maggioranza delle figure pubbliche attuali. E che la coerenza – intesa come corrispondenza tra ciò che si dice e ciò che si fa – non era bandita come una fastidiosa fissazione di pochi intellettuali. Era considerata una virtù.
Coerenza che appare, oggi, relegata nell’ammuffito deposito del passato. Nell’oggi, si verifica il perdurare della situazione antecedente anche con condottieri nuovi: la vera o presunta sudditanza ad istituzioni internazionali sbeffeggiata quando si è all’opposizione, non solo non viene scalfita quando si diventa forza di governo, ma in qualche caso accentuata; la posizione sulla guerra ucraina, verso cui si storceva un po’ il muso, resta tale e quale; per la crisi energetica si cercano soluzioni già elaborate dal vituperato precedete governo; con i “poteri forti”, prima ritenuti diaboliche incarnazioni del male, si colloquia e si collabora; e così via. All’accettazione di tutto ciò contro cui si erano scagliate saette roboanti ed astiose si supplisce con la creazione di miti narrativi. Per esempio quello della ragazzina che, essendosi fatta da sola nelle asperità dei quartieri popolari (il che suscita certamente umana simpatia), una volta divenuta adulta sarebbe per ciò stesso capace di risolvere d’incanto i problemi della povera gente, così come anni fa si vagheggiava sul fatto che l’imprenditore stra-arricchitosi sul piano personale avrebbe per ciò stesso reso ricchi tutti gli italiani.
Questo arretrare dei fatti nella coscienza collettiva, in favore di rappresentazioni retoriche e intercambiabili, non riguarda ovviamente solo la politica. Molto si deve, certamente, all’avanzare della “società liquida” (le cui caratteristiche e il cui avverarsi ci vengono magistralmente spiegate mensilmente su questo blog da Eide Spedicato Iengo). Società in cui l’ancoraggio tra parole, concetti e coerenza si fa sempre più ballerino ed evanescente e in cui ci si abbaglia reciprocamente di momento in momento con lo splendore del nulla, se mi si passa l’ossimoro.
Ma c’è un altro modo di vedere le cose, che fa della politica non solo l’arte di governare la polis, ma anche quella di fare delle polis dei corpi viventi, pensanti, solidali, in cui l’interesse dell’individuo non sia il fulcro unico della vita civile, ma neanche debba essere mortificato; in cui cioè il cammino dell’individuo e quello della collettività confliggano il meno possibile. È a questa dimensione che occorre principalmente guardare per immaginare un affievolirsi della retorica e una crescita dei valori che l’uomo ha costruito per rendere più agevole quel cammino. L’etica, evidentemente, non è una “scienza esatta”. I valori, perciò, non sono “assoluti”, non discendono da un mondo extraterrestre e non sono sempre ugualmente validi in tutte le epoche e in tutti i luoghi. Ma, per quanto possibile dovrebbe comunque spettare all’uomo, singolo e associato, di scegliere quali, qui ed ora, praticare.
La foto della scena del film Il Gattopardo risulta di pubblico dominio.