Nell'epoca del grande sviluppo della tecnologia e della potenza che tramite essa acquisiamo, per paradosso sentiamo più acuta la fragilità della specie umana. E della necessità di nuove e più profonde forme di democrazia.
di NANDO CIANCI
Dire che mai come oggi la fragilità della condizione umana si manifesta in tutta la sua nudezza ci fa, al contempo, sfiorare la trappola del luogo comune e toccare da vicino una macroscopica contraddizione.
Luogo comune, perché sappiamo da sempre che la fragilità ci accompagna inevitabilmente (e su di essa hanno scritto pagine alte di poesia e di prosa i grandi della letteratura, della filosofia e delle arti).
Ma anche paradosso, perché nell’epoca in cui ci siamo dotati di supporti tecnologici portentosi che ci aiutano ad affrontare ogni sorta di avversità, in cui la medicina e gli stili di vita ci hanno consentito – almeno in certe parti del mondo – di allungare la durata media della vita, in cui abbiamo costruito ogni sorta di difesa da attacchi di varia natura, ci sentiamo stranamente piccoli e fragili.
Una delle ragioni probabilmente sta in questo: fino ad un certo momento della storia l’uomo ha avvertito, provato e vissuto la propria personale inadeguatezza a fronteggiare i pericoli del mondo, la propria individuale fragilità. Difficile pensare che i nostri antenati primitivi, ma anche quelli un pochino più recenti, potessero andare oltre la percezione del pericolo per la propria vita e per quella delle persone vicine. I pericoli, inoltre, erano sempre concreti e presenti, o imminenti: un incendio, un terremoto, l’esondazione di un fiume, il rombo di un tuono, i bagliori dei fulmini. Il mito e la filosofia si sono incaricati, successivamente, di allargare le nostre vedute. Platone nel Protagora, ad esempio, mostra come la sprovvedutezza di Epimeteo nel distribuire le facoltà fra gli esseri animati, lasciò sguarnito l’uomo tanto che il di lui fratello, Prometeo, dovette rubare il fuoco agli dei, cioè appropriarsi della tecnica. Cosa che ha consentito all’uomo di sopravvivere, ma non ne ha eliminato la costitutiva fragilità. È stato proprio con l’accorciarsi delle distanze conseguita allo sviluppo della tecnologia che siamo stati messi in grado di capire, o almeno intuire il legame che c’è tra la vita di ognuno e il destino comune. Si è fatta strada, insomma, sia pure in gradi molto diversi, la consapevolezza che a rischio non sono più solo gli individui, ma l’intera specie. Non solo perché il mondo ci appare sempre più interconnesso in tutti i sui aspetti, ma anche perché intuiamo di aver portato la tecnologia ad un punto in cui convivono la massima (per ora) possibilità di allungare la vita umana e alleviare le fatiche e il dolore insieme al massimo potenziale distruttivo che potrebbe mandare il Pianeta a carte quarantotto.
Quest’ultimo aspetto inizia a spaventare, forse, non solo e non tanto per la oggettiva potenza distruttiva accumulata, quanto e soprattutto per la scarsa fiducia che l’uomo – come il noto apprendista stregone – sia in grado di dominare le potenze che egli stesso ha scatenato. Ancor più desta timore la più che dubbia capacità delle classi dirigenti di poter governare un sistema economico, finanziario e mediatico che – pur di generare profitto – sembra non arrestarsi di fronte a nulla. Così come sgomenta l’incapacità dei governanti a impedire sul nascere meccanismi di guerra, di aggressione, di volontà di potenza, di colonialismo più o meno esplicito che possono portare a conseguenze estreme.
Tutto ciò ha un effetto scioccante sulla parte più consapevole delle attuali generazioni adulte che sono cresciute nella progressiva convinzione di un ingresso sempre più massiccio e incisivo delle masse nelle decisioni della storia comune. A tale convinzione va subentrando (appena mascherata da un populismo insipiente e ad un sovranismo che sta alla complessità dei problemi del mondo come lo starnuto di un gatto all’avanzare di uno tsunami) la sensazione di non contare più nulla, di essere spettatori impotenti di una politica che annaspa tra le forti spinte dell'economia e della tecnica e che non comprende a fondo la posta globale in gioco.
Si pone dunque con grande evidenza il problema di nuove ed inedite forme di democrazia, poiché va sempre più scomparendo la possibilità del corpo sociale di incidere sulle scelte politiche. Ma non si vedono in giro né grandi intellettuali singoli, né intellettuali collettivi (quelli che una volta erano i partiti di massa) preoccupati di studiare ed elaborare le nuove strade. Si vedono solo qualche persona volenterosa e molti modesti figuranti che si atteggiano a statisti. Abbondano, a latere, intellettuali dediti allo spettacolo e a poco altro.
Eppure, a fronte di un orizzonte che sembra scuro, non occorre perdere la speranza e la volontà di aprire strade nuove. Sia per le ragioni, legate anche alla biologia, che vengono spiegate qui sopra da Eide Spedicato Iengo nella rubrica Mondo Liquido, e sia perché comunque nella storia umana nulla può dirsi segnato in anticipo e le occasioni di svolta sono a volte arrivate, e possono ancora presentarsi, e non è detto che non sapremo coglierle. In fondo, anche per la nostra specie vale quel che Antonio Machado diceva per il Caminante:
Viandante, sono le tue orme
il sentiero e niente più;
viandante, non esiste il sentiero,
il sentiero si fa camminando.