di NANDO CIANCI
Di una cosa le generazioni adulte sono estremamente prodighe nei confronti dei giovani: la retorica. Ne propinano a piene mani e nelle più svariate occasioni: siete il futuro dell’umanità; costruirete un mondo nuovo; solo il vostro entusiasmo e la vostra freschezza potranno salvare un pianeta rovinato dagli egoismi affaristici e dalla cecità umana; bisogna che, dall’estero, torniate a fare ricerca in Italia; investiremo su di voi; e via osannando, salmodiando, chiacchierando e rinviando. C’è, infatti, una costante in questa retorica: il momento dei giovani viene rimandato sempre ad un indistinto futuro.
In tempi passati, ho cercato altrove di spiegare come occorrerebbe smetterla con il dire che i bambini e i ragazzi sono il futuro della società e cominciare a dire che, invece, essi sono il nostro presente[1]. Dietro l’alluvione di parole incoraggianti e speranzose, dietro la valanga di “buoni sentimenti” ci sono, in realtà, comportamenti che dicono altro e, in fondo, continuano a considerare i giovani come dei “bamboccioni” incapaci di assumersi responsabilità. E a negare, di fatto, ad essi la possibilità di prendere in mano i propri destini individuali e collettivi. Cerco di spiegarmi meglio.
La scelta e l’uso delle parole, intanto, spesso rivelano molto più di quanto chi le pronuncia vorrebbe esprimere. Si continua, per esempio, a definire i nostri giovani che sono all’estero a fare ricerca e a svolgere professioni come dei “cervelli in fuga”. Come se fossero essi a scappare da una realtà che avrebbe bisogno di loro e che desse loro spazio e possibilità di fare qui quel che vanno a fare altrove. Come se abbandonassero il campo. Come se, appunto, fuggissero. È un modo lessicalmente subdolo di scaricare su di loro responsabilità che sono nostre e che ci hanno portato a costruire un paese dove un tipo che si agita sui social, parlando di niente, ha milioni di “seguaci” e un ricercatore vale poco più di zero. Un paese nel quale la ricerca è stata tutt’altro che una priorità per decenni di governi di vario colore.
Ma dove la sostanziale sfiducia verso i giovani si è manifestata nella sua più piena evidenza è stato, ed è, in questo periodo di pandemia.
Da sempre l’umanità è alle prese con sconvolgimenti che alterano quello che percepiamo come il normale scorrere delle cose (e che tale non è, ma qui il discorso sarebbe troppo lungo): guerre, carestie, epidemie, catastrofi “naturali”. Sempre li ha affrontati e, in un modo o nell’altro, ne è uscita. Lo ha fatto mobilitando energie di vario stampo: economiche, tecnologiche, soprattutto umane. Queste ultime, nel corso dei secoli, sono state le risorse fondamentali. E, in tale ambito, molto si è chiesto ai giovani. Ricostruire, del resto, è una condizione umana che più di tutte richiede uno sguardo di prospettiva, di speranza, di vitalità. Uno sguardo che metta insieme la saggezza di chi ne ha viste tante con la freschezza di chi deve prendere in mano il mondo. Bene: stiamo tentando di realizzare questa feconda unione per affrontare la pandemia e le sue conseguenze sulla vita individuale e sociale? Direi di no, su entrambi i versanti.
Da un lato questa società non sa che farsene della saggezza di generazioni che hanno accumulato esperienze e studi e che potrebbero essere dei potenti costruttori di senso civico. In quanto “improduttive” sul piano economico, esse vengono tenute ai margini. Perché il messaggio che risulta prevalente nel discorso pubblico è che a farci uscire da questo impiccio saranno i denari che la comunità internazionale ha all’uopo stanziati e che tutto il resto è chiacchiera. Ad essi, che pur sono indispensabili, viene attribuito un potere miracoloso, che lascia in ombra l’apporto della sperimentata creatività umana, senza la quale ogni questione, in pandemia o in “normalità”, diviene un affare di tecno-burocrati e, sotto sotto, di possibili predatori del denaro pubblico.
Dall’altro lato, a differenza di quel che si fece con le giovani generazioni nella Resistenza, nel secondo dopoguerra e in altri momenti cruciali della storia nazionale, non stiamo chiedendo loro di rimboccarsi le mani, di rischiare e camminare su terreni impervi a testa alta, per imparare la prudenza praticando l’audacia. Invece di educarli alla conoscenza della storia – cioè del cammino umano con le sue difficoltà, conquiste e battute d’arresto – dalla quale attingere la consapevolezza della forza e delle debolezze della nostra specie, li spingiamo alla letargia inondandoli di piagnistei e commiserazione, inducendo in loro il senso di una catastrofe irrimediabile che scaturirà dal procedere della scuola a singhiozzo, di una “ingiustizia” della storia che li ha defraudati della loro gioventù, di aver vissuto un’esperienza che li ha segnati negativamente per sempre. Il senso di una gioventù scippata loro da un destino cinico e baro. Come se nei secoli la gioventù delle migliaia di generazioni precedenti si fosse svolta in un giardino dorato tra fiumi di latte e miele. Ministri dell’educazione, sociologi improvvisati e pedagogisti provvisti, forse, di qualche dottrina ma sprovvisti di senso della vita hanno fatto a gara, con il loro pianto continuo, nel considerare i giovani come del tutto incapaci di affrontare le difficoltà, come fatalmente destinati a soccombere di fronte alle attuali avversità. Che altro è, infatti, questo diluvio di catastrofismo e di commiserazione verso i giovani in epoca pandemica se non una palese e insopportabile dichiarazione di sfiducia nella loro capacità di affrontare le asperità della vita, di essere il motore della rinascita (una delle tante che l’umanità si trova ad affrontare nei millenni), di dipingere con nuovi colori un mondo che gli adulti presentano loro a tinte fosche? E che altro è, tutto ciò, se non l’incapacità di educare e il custodire l’inconfessabile proposito di mantenersi saldamente in sella e non lasciare il passo ai giovani?
Tutta la retorica sul futuro affidato alle nuove generazioni è, in buona sostanza, un imbroglio. Consciamente voluto da chi ha interesse a rimanere abbarbicato al potere (e che, intanto, i “suoi” giovani se li prepara eccome, per la successione). E inconsapevolmente attuato da molti altri adulti che, non sapendo che pesci prendere di fronte ad un mondo complicato, seminano disperazione. Se proprio si vuole individuare, in giro, la persistente presenza di “bamboccioni”, forse non è tra i giovani che bisogna cercarla.
[1] Particolarmente nel mio libro Gioventù scippata, pubblicato nel 2007.